Archivio

Posts Tagged ‘Mercato’

Per l’inventario e la contabilizzazione in bilancio di tutti i beni comunali

Petizione che potete presentare in tutti i Comuni, chi vuole partire con questa petizione mi faccia sapere.
Domenico Letizia

All’Amministrazione di ….,
Al Comune di…..,

Per l’inventario e la contabilizzazione in bilancio di tutti i beni comunali di ……
Già nel 1896, Antonio Labriola scriveva che, con l’evoluzione storica, lo Stato “è dovuto divenire una potenza economica”, in particolare “nella diretta proprietà del demanio”, oltre che “nella razzia, nella preda, nell’imposizione bellica”. Oggi questo demanio è sterminato: strade e autostrade, porti e aeroporti, impianti energetici, beni storici e artistici, coste, acque territoriali, fiumi, laghi, risorse naturali degli enti locali, miniere, cave e, per accessione, rete elettrica e cavi telefonici (almeno potenzialmente) presenti in tutti i comuni italiani. L’art. 2424 c.c. impone che i cespiti immobiliari siano iscritti in bilancio all’attivo, ma i Comuni, come gli altri enti territoriali, non applicano a sé il codice civile e quindi non iscrivono quei beni, perché non li trattano da ricchezze quali sono, ma solo da oneri. Con la seguente petizione chiediamo all’amministrazione di …….. di stilare un inventario di tutti i beni di proprietà comunale stabilendo per ognuno il valore di mercato di estimo, con conseguente iscrizione in bilancio di questo valore in modo da rendere finalmente pubblico, trasparente, reale e senza ipocrisie la ricchezza comunale della Città di ………. .

Contatti:
Domenico Letizia: anarhkydom@hotmail.it

Confronto tra Democrazia e Mercato

novembre 25, 2010 7 commenti

Domenico Letizia

Nelle società odierne dominate dalla burocrazia e dalle maggioranze, la “democrazia” è il bene assoluto, valore totale da rispettare e da diffondere in ogni cultura. Ma la democrazia come qualsiasi altro dogma che s’impone agli individui non è altro, in fin dei conti, il potere della maggioranza, che indubbiamente può variare o no, sulle minoranze. Ad un analisi approfondita la scelta di un governo democratico non risulta per nulla trasportatrice di valori di libertà e sovranità individuale.

Il dibattito dovrebbe portare ad un confronto tra democrazia e “leggi” della concorrenza o mercato. Se nella democrazia l’opinione della maggioranza risulta oppressiva per le minoranze, nel mercato la responsabilità con tutte le conseguenze ricade sulla scelta in sé. Ciò che va visto con attenzione è il problema dell’ “efficienza” e confrontare se questa metodologia sia rispettata nella democrazia attuale o nelle “democrazie concorrenziali ” o di mercato. Ludwing Von Mises utilizza l’argomento della democrazia affermando che la distribuzione dei voti monetari è il frutto essa stessa, del referendum perenne dei consumatori. Nozick si avvale dell’argomento della libertà ritenendo che la distribuzione di potere è nel mercato l’espressione del criterio “ ognuno in base a come sceglie a ognuno in base a come è scelto”. Risulta di facile comprensione affermare che il modello mercato è più “democratico” della democrazia attuale.
A differenza del consumatore che si muove nel mercato e nello scambio, durante le elezioni il voto non implica alcun patto tra chi “consuma” il voto e chi viene designato, se l’eletto non rispetta il programma per il quale è stato votato, non viene spazzato via dalla concorrenza in favore di un altro individuo che rispetti tali programmi o le scelte dichiarate. Se io scelgo un prodotto è questo non è di mio gradimento semplicemente lo cambio, anche dopo un paio d’ore, in democrazia non è così.
A ciò va aggiunto il carattere dispotico della democrazia che non si ritrova nel mercato, quello della scelta, dell’oppressione della maggioranza sulle minoranza. Milton Friedman, l’economista premio nobel, ha chiarito bene la differenza fra i sistemi democrazia e mercato attraverso l’esempio delle cravatte. Mentre nel mercato economico illustra Friedman, ognuno va al negozio per conto suo, di modo che ciascuno ha quello che sceglie, vale a dire ciò per cui vota (se il 51 per cento vuole una cravatta rossa, se la prende, e il 49 per cento la prende verde o come vuole) nella democrazia politica la gente vota: se il 51 per cento vota cravatta rossa, deve portarla il 100 per cento. Ciò che il mercato dovrebbe portare al modello democratico è la libertà di scelta e la responsabilità, ciò porterebbe ad un governo privo di caste imposte e ad una società a-statale. Libertà contro Dittatura. Il sistema mercato e il confronto con la democrazia è stato ben illustrato da Riccardo La Conca.

(http://notizie.radicali.it/articolo/2010-11-23/intervento/confronto-tra-democrazia-e-mercato)

Dalla crisi economia all’orgasmo sociale

novembre 9, 2010 5 commenti

Lo statalismo fa male, fa male economicamente ma soprattutto moralmente e culturalmente. Di questa crisi si è sentito parlare parecchio, soprattutto a sproposito e come sempre quando a far i danni sono i governi e il patriarca assoluto lo stato, semplicemente si addossa la colpa a qualcun altro, in questo caso “l’entità” Mercato. Che poi nessuno faccia nomi di chi di questo mercato oligarchico si è approfittato, coloro che si sono arricchiti alle spalle di milioni di individui è normale, semplicemente perché il colpevole di tanto artifizio è lo stato in quanto tale e il suo assistenzialismo capitalista, interventista: banche centrali, la creazione di moneta fasulla, l’intervento statalista per amici imprenditori e per clientele politiche, economiche e sindacali, insomma quello che è casta che però ha nome e cognome, soprattutto tra chi dovrebbe governare in nome del cittadino elettore. Ma la crisi è anche una nuova e risorgimentale opportunità, un opportunità di risveglio di orgasmo sociale, se la vita economica vissuta fin oggi è impossibile da perpetrare tocca ripartire dalle base, per r-inventare forme e sistemi economici partecipati, autogestiti, democratici insomma alternativi. Si ritorna a parlare di casse di solidarietà, di mutuo appoggio, di partecipazione, di mercato alternativo, di commercio solidale, insomma la crisi mette in luce di come ci sia bisogno di liberarsi da ciò che ha generato la crisi, soprattutto lo stato e lo statalismo riconsegnando il potere di gestione sociale al cittadino, all’individuo protagonista economico dei propri servizi e alla comunità in cui vive.
La partecipazione sociale è incentivata a svilupparsi proprio alla luce della perdita di scelta, dalla consapevolezza di un mercato ove il problema sussiste nella mancanza reale di mercato ( per intenderci, pensiamo alla circolazione della moneta, se non gira, se non è presente nelle fasce sociali il sistema economico monetario è in crisi). La libertà di scelta che può prodursi da questa crisi si ha sostenendo tutte quelle forme di mercato e mutualismo decentralizzato, solidale e autogestito.
Solo in questo modo la crisi economica si trasforma in orgasmo sociale con l’obiettivo di sviluppare l’autodeterminazione individuale delle scelte in tutti i campi dell’esistenza, questa libertà in tutti i campi produce un limite naturale allo stesso sistema “mercato”, cioè come illustrato da Pietro Adamo l’ideale “mercato” libertario si situa in un contesto in cui si incrociano istanze non solo economiche, ma etiche, politiche, sociali, e cosi via. Questa sperimentazione potenzia tutte le sfere in cui l’uomo agisce, non solo quella economica: proprio dall’interazione di queste sfere dovrebbe risultare una sorta di limite all’ambito del “mercato”.

Domenico Letizia

Mensile Libertario “Cenerentola” Novembre 2010

Castel Bolognese: presentazione libro su Francesco Saverio Merlino

Sabato 9 ottobre, alle ore 16, la Biblioteca libertaria “Armando Borghi”, in collaborazione con la Biblioteca comunale “Luigi Dal Pane”, organizza la presentazione del libro “La fine del Socialismo? Francesco Saverio Merlino e l’anarchia possibile” a cura di Gianpiero Landi, Chieti, Centro Studi Libertari “Camillo Di Sciullo”, 2010. Il libro verrà presentato nel Teatrino del Vecchio Mercato (via Rondanini, 19) con interventi del curatore Gianpiero Landi e Roberto Zani.
Il volume contiene gli atti del convegno di studi tenutosi a Imola, nella Sala delle Stagioni, il 1° luglio 2000 per iniziativa dell’associazione “Arti e Pensieri”. Un confronto ad ampio raggio, in cui l’accurata ricostruzione storiografica si è intrecciata a riflessioni e dibattiti su nodi teorici di grande rilevanza e attualità. All’appuntamento del 2000 parteciparono studiosi di diversi orientamenti culturali e politici: Pietro Adamo, Giampietro Berti, Bruno Bongiovanni, Raimondo Cubeddu, Paolo Favilli, Gianpiero Landi, Luciano Lanza, Massimo La Torre, Natale Musarra, Emilio R. Papa, Luciano Pellicani, Nadia Urbinati, Enrico Voccia. In appendice sono presenti anche due scritti inediti di Bruno Rizzi. L’iniziativa si colloca nell’ambito della edizione 2010 della rassegna “Ottobre, piovono libri. I luoghi della lettura”.

L’acqua, il corporativismo, lo statalismo e la libertà

luglio 15, 2010 1 commento

Come il “libero mercato a fatti vostri” italiano sia solo sistemazioni di amicizie politiche soprattutto di centro destra, come il centro sinistra raccoglie firme per un referendum dannoso, inutile ( perché l’acqua non è “privatizzata”) per farsi propaganda qualunquista, noi uomini liberi proponiamo la terza via, la via della libertà.

Acqua Pubblica o Acqua Privata? La propaganda di sinistra, quella becera è inutile è riuscita a ridurre un dibattito di eccezionale valore a semplice scontro che nei fatti è inesistente. Perché inesistente? L’acqua privata in questo paese non è mai esistita, tra i cultori del “no al mercato” nessuno denuncia che queste politiche non sono altro che sistemazioni di posti per politici e per partiti che attraverso aziende e compagine amiche elargiscono sistemazioni a conoscenti, un corporativismo vivo in questo paese proprio a causa dello statalismo, di certo non per colpa del mercato. La sinistra continua a rincorrere, sbagliando enormemente soprattutto in tematiche ambientali, l’acqua statale dimenticandosi che proprio grazie alla gestione statale le condutture perdono 104 litri d’acqua per abitante al giorno (pari al 27 per cento), un terzo degli italiani non ha un accesso regolare all’acqua potabile, ma ogni italiano consuma 237 litri di acqua al giorno. Salerno è la città che ne consuma di più con una media di 264 litri a testa al giorno. Il rubinetto dell’Italia perde il 30 per cento dell’acqua immessa e nelle regioni meridionali e nei mesi estivi il 15 per cento della popolazione scende al di sotto della soglia minima di fabbisogno giornaliero a persona (50 litri al giorno), senza dimenticare anche il business dell’acqua minerale che vale 5,5 miliardi di euro all’anno. La gestione statale produce e produrrà solo perdite, ma evidentemente ai difensori dello statalismo questo non interessa. Allora cosa fare? Partendo dal presupposto che proprio grazie agli statalisti di destra e di sinistra le liberalizzazioni serie in questo paese non prendono avvio e ne si ha intenzione di farle, a noi libertari tocca sviluppare e con gioia, fantasia, fantasia che poi insegna la storia. Le sinistre alla sinistra del Partito democratico hanno lanciato una campagna contro la privatizzazione dei gestori dell’acqua per conservare o riaffermare una gestione pubblica. Dimenticando, forse, che già diverse municipalizzate che la sinistra ha sempre elogiato sono quotate in Borsa. Se l’acqua è un bene che il cittadino deve tutelare, controllare e gestire, pubblico o privato italiano diventando due facce della stessa medaglia. L’acqua non potrebbe essere gestita da chi la consuma? Si può, attraverso i modelli di gestione partecipata, per le piccole realtà le cooperative o attraverso fondazioni ad azionariato diffuso, ove gli azionisti non sono altro che i cittadini stessi che l’acqua la consumano, la usano e la vivono. L’autogestione degli acquedotti diventa necessità, da subito, per non sprecare altro bene prezioso. Ecco la mia lezione alla destra e alla sinistra, l’autogestione è una forma di mercato vero, quello odiato dalla sinistra ma a cui non può obiettare, ecco che il liberismo diventa di sinistra, autogestito e partecipato, con buona pace di una destra che corre alle clientele e non di meno di una sinistra che non sapendo cosa fare punta ad inutili referendum proponendo modelli gestionali pessimi invece di sviluppare idee.

Domenico Letizia, libertarian, Maddaloni CE

Testata: CartaLibera
Registrata: Registrata al Tribunale di Milano Editore: Servizi Associativi Srl – Stampatore: NGI Spa
Data: 16 Luglio 2010

Capitalismo Pensante

Albert J. Nock difensore delle origini americane

Roosevelt nelle elezioni presidenziali americane del 1932 e del 1936 ottiene un larghissimo consenso da una popolazione che guarda alle politiche del New Deal come la fine di un capitalismo che ha rovinato l’America. Ma un vasto gruppo di intellettuali non solo conservatori combatte energicamente il progetto progressista considerato Anti-americano, traditore della Dichiarazione di Indipendenza e del Bill of Rights, la fine dell’ideale individualista che da sempre aveva caratterizzato l’America della frontiera degli ideali jeffersoniani cari agli anarco-individualisti come Spooner, Tucker e Warren. Ad avversare il centralismo che velocemente stava caratterizzando la politica americana è Albert J. Nock, figura particolare, apprezzata, studiata e stimata anche dalla cultura attuale anarco-capitalista. La sua vita è caratterizzata da un velo di riservatezza e da un pensiero originale profondamente libertario e antistatalista. La sua formazione appartiene a quelle idee individualiste, anarco-individualiste, eredità della lotta contro lo ‘statalismo’ dalla madre patria inglese, la lotta per l’indipendenza delle colonie americane. Durante la maturità osservò una società dell’auto-responsabilità, una società che libera le forze spontanee dando corpo ai diritti individuali.
L’originalità di Nock consiste nell’aver fatto della sua filosofia il laissez-faire, un antistatalista convinto che guardava al libero scambio come unico strumento sincero e profondamente liberale, ma Nock metteva in guardia e presentava preoccupazione, per una società occidentale fondata completamente sull’ economicismo. Illustrò benissimo quelle che riteneva le storture che stava percorrendo la società americana e di conseguenza il tradimento di quei valori liberali e libertari proprio della tradizione americana, come ebbe a sostenere nell’opera Our Enemy the State: “è fuorviante affermare che il laissez-faire di fine secolo sia stato la causa delle storture…” quando ciò avvenne come nel caso delle ferrovie, fu dovuto al fatto che: “esse furono imprese speculative favorite dall’intervento dello stato, mediante la distribuzione di strumenti politici in forma di elargizioni di terre e sussidi…” . Nock denuncia quello che poi diverrà il capitalismo coorporativista che porterà alla fine del libero scambio e alla creazione dei monopoli, è stato anche colui che analizzando la società americana notò che lo stato aveva portato: “….la divisione della società nella classe dei proprietari e degli sfruttatori e nella classe subalterna dei non-proprietari, cioè per un fine criminale…”, queste sono dichiarazioni non di un socialista, Nock aborriva il socialismo ma riteneva fondamentale diffondere e rendere estesa la proprietà privata a tutti.
Cercò di analizzare lo statalismo non solo politicamente e filosoficamente ma anche psicologicamente o meglio analizzò come lo statalismo influiva sulle mentalità collettive, un convinto non sostenitore dell’entrata in guerra degli Stati Uniti riteneva che la guerra stimolava una sorta di eguaglianza, uno strumento di riscatto contro le disuguaglianze sociali che praticamente accresceva enormemente i poteri dello stato. La guerra forniva a tutti un chiaro e illusorio senso di finalità collettiva, che la pace non aveva mai dato. Non bisognava meravigliarsi di totalitarismi forti come la Russia, Italia e Germania perché è lo stato in se che porta inevitabilmente a queste conclusioni.
La lettura di Nock appare davvero gradevole non solo da un profilo storico, Nock è tra quei autori che scrive e denuncia dispotismo proprio nel periodo di passaggio, anche culturale, da una filosofia politica che dall’individualismo originario va allo statalismo più intrinseco. Lo studio di Nock può essere letto come continuità degli ideali anarchici autoctoni americani. L’eterno scontro tra l’individuo, la sovranità dell’individuo e lo stato.

Domenico Letizia

Rivista Enclave
n48, Luglio – Settembre 2010
Registrata presso il tribunale di Bergamo

Contraddizione di Rothbard

luglio 1, 2010 4 commenti

Le riflessioni tratte da Fabio Massimo Nicosia

Lo sbaglio di Rothbard

giugno 27, 2010 10 commenti

Murray Rothbard, “Nazioni per consenso” in AA.VV., “Nazione, cos’è”, Leonardo Facco Editore, 1996. – L. 12.000

citazione di un passo:

“Una società interamente privatizzata non avrebbe assolutamente frontiere aperte. Se ogni pezzo di terra in un paese fosse posseduto da qualche persona, gruppo o società ciò significherebbe che nessun immigrante potrebbe entrarvi se non è stato invitato ad entrare e se non ha ottenuto il consenso ad affittare od acquistare la proprietà. Un paese totalmente privatizzato sarebbe chiuso quanto i singoli abitanti e proprietari desiderano”.

critica:

Qualunque teoria della proprietà che voglia essere libertaria ed evitare l’effetto-gabbia non può che muovere da una premessa comunista: occorre cioè assumere che, in origine, tutti hanno in comune la proprietà del mondo. Rothbard riconosce la moralità di tale ipotesi, ma la respinge come irrealistica in nome della separatezza degli individui e dell’impossibilità che ognuno possa possedere effettivamente l’intero mondo; egli denota però così limiti di cultura giuridica, dato che l’istituto (privatistico) della comunione ben consente di immaginare che ognuno possa essere proprietario del mondo pro quota. Ecco allora che il comunismo originario non impedisce affatto che le quote possano circolare e dar vita a un mercato, consentendo detenzioni individuali ed eventualmente legittimando la stessa divisione della comunione.
Tale concezione (quella secondo cui il mondo è originariamente di proprietà comune di tutti gli uomini), è dominante nel cristianesimo primitivo, ma non è affatto estranea nemmeno alla tradizione del liberalismo classico. Non si spiega altrimenti, ad esempio, la “clausola di Locke”, in base alla quale l’appropriazione è illegittima se ne derivino privazioni per gli altri. E si noti che Rothbard, il quale fondamentalmente recepisce la concezione lockeana della proprietà, ne respinge proprio la “clausola” di ragionevolezza, aprendo così la strada alla aberranti conseguenze indicate.
Analoga impostazione si rinviene in tutti quei liberali classici (compreso Bastiat), per i quali il fondamento giustificativo della proprietà è nella produzione, dunque nell’utilità che, attraverso essa, si procura agli altri. Si veda ai tempi nostri la scuola dei property rights (Demsetz e Alchian), o James Buchanan, secondo i quali la proprietà scaturisce da un contratto, se si vuole da una convenzione, e non mai da un atto unilaterale di imperio accompagnato dall’enunciazione di un mistico diritto naturale.
Ma se nasce dallo scambio, la proprietà ne reca i segni, non essendo pensabile che dall’accordo possa scaturire il dominio di uno degli scambisti sull’altro, o il peggioramento delle condizioni di uno di loro. Nella peggiore delle ipotesi, il non proprietario si sarà quantomeno garantito un diritto di passaggio e di circolazione, nonché, si direbbe, di accesso a una quota di risorse naturali. Ciò intacca allora il mito dello ius excludendi alios, che a questo punto appare più un frutto “legislativo” e imperativo, che non il prodotto di libere interazioni di mercato.
Rothbard muove da una visione restrittiva della natura umana, imperniata attorno al concetto di lavoro stanziale, che attraverso, l’occupazione, fonda il diritto di proprietà. Il nomade non ha diritti sulla terra. Eppure l’uomo è anzitutto un animale dinamico, la sua azione implica movimento; nella sua natura non v’è domanda di proprietà fondiaria più di quanto non vi sia domanda di spazi aperti. Se perciò è lecito fondare diritti sulla natura umana, tra essi vi è sicuramente un qualche diritto di circolazione, che limita ab origine il diritto di proprietà altrui.

Citazione da: L’opinione di un libertarian di Fabio Massimo Nicosia

Vivere altrimenti il presente

Di Luciano Lanza ( http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/06/21/galassia-libertaria/)

È chiaro, allora, che il sistema economico imperante vive di crisi. Anzi, il prodursi e il riprodursi in tutte le forme del termine crisi ci fa intravedere una realtà occultata, un non detto perché fuori dagli schemi: il sostantivo che contrassegna questa nostra epoca è la crisi. Comprendere che la crisi è l’analizzatore (come direbbe René Lourau, Lo stato incosciente, Elèuthera, 1988) della società attuale ci permette, dunque, di mettere a nudo la dinamica sociale, anzi è il fenomeno che rivela la modificazione qualitativa della società e della nostra vita quotidiana.
Que la crisi s’aggrave scriveva nel 1978 François Partant e non era affatto un invito «al tanto peggio tanto meglio», anzi. Partant è stato un precursore della decrescita poi analizzata e proposta, come via d’uscita da una situazione che ci porterà al disastro, da Serge Latouche: «La situazione attuale, anche qui nel nord del mondo, non sarebbe peggiore se fossimo capaci di liberarci della tossicodipendenza del consumo e del lavoro. Quando l’economia è in crisi, la società sta tanto meglio che diminuisce il consumo di antidepressivi. Può essere l’occasione per la fioritura di tante iniziative «decrescenti» e solidali: gruppi d’acquisto solidale, sistemi di scambio locali, autoproduzione assistita, giardini condivisi… Bisogna fare di tutto perché la recessione non sia l’anticamera del caos e di un ecofascismo odioso, ma una tappa verso la decrescita serena e conviviale» (Carta, n.41).

Che in altra forma è quanto si sosteneva su Libertaria nel n. 1-2/2009, La crisi? Può essere un’occasione: «Allora pensare e praticare (per quanto è possibile) forme di autonomia economica locale è un piccolo sentiero in utopia. Vale a dire che possiamo e dobbiamo opporre al moloch (vulnerabile) della globalizzazione la piccola realtà gestibile dalle persone. E poi approfondire quelle forme già in atto come gruppi di acquisto, gruppi di autoproduzione e di scambio per creare ipotesi di «mercato parallelo», quindi economie alternative (termine un po’ abusato, ma sempre valido nella sua essenza) in grado di soddisfare bisogni ed esigenze locali. Questi deboli tentativi di fuoriuscita dal mercato capitalista sono meno fragili di quanto possa sembrare a prima vista. Ad almeno una condizione: se sono capaci di creare una nuova socialità, una nuova convivialità. Anticorpi al mercato delle multinazionali».

Cioè come scriveva Partant: «Non si tratta di preparare un avvenire migliore, ma di vivere altrimenti il presente».