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Ebraismo e anarchismo

novembre 16, 2010 3 commenti

La storia ebraica ha sempre collegato l’ebraismo al marxismo e ne ha trattato le origini e le ripercussioni storiche, ma da alcuni anni si è iniziato a studiare il rapporto tra anarchismo ed ebraismo. Tralasciando lo stupore che ogni volta “colpisce” chi sente accostare religione ed anarchismo, questa ricerca sta sviluppando risultati piacevoli che possiamo dividere in un analisi strettamente filosofica: Collegamenti tra anarchismo e ebraismo e un analisi più storica: Gli ebrei all’interno dei movimenti anarchici. Chi ha analizzato a fondo la religione ebraica e i suoi insegnamenti per ricavarne o ricercarne una chiave libertaria è Furio Biagini che recentemente ha pubblicato: Torà e libertà. Studio delle corrispondenze tra ebraismo ed anarchismo. Ritengo affascinate la particolare lettura che fa Biagini delle scritture interpretate libertariamente, Biagini evidenzia come l’idea di libertà sia centrale nella Bibbia facendo notare la prospettiva di superamento e miglioramento del presente, l’opera concentra la sua attenzione su un analisi dei movimenti radicali messianici sviluppatisi nelle comunità ebraiche soprattutto dell’Europa Orientale. Biagini centra la sua attenzione anche sulla figura di Jacob Frank, leader rabbinico definito e descritto dall’autore come personalità carismatica che predicava l’annullamento di ogni distinzione tra il sacro e il profano, interessante è l’analisi di Biagini che collega il pensiero del “nichilista di rara autenticità” Jacob Frank con il rivoluzionario anarchico Bakunin. Nei movimenti radicali e messianici Biagini fa notare come grande importanza sia data al fare quotidiano, alle azioni semplici, in cui ciascuno ha la possibilità di liberare, ricercare se stesso anche alla luce di una ricerca divina anche nelle piccole cose, per la ricerca della salvezza, salvezza che empiricamente si può ottenere soltanto concedendo libertà di parola, delle proprie idee, e la possibilità di difenderle, contro ogni autoritario dogmatismo. L’esempio pragmatico di questo modo di concepire “la vita e la propria religione” lo si ritrova analizzando la storica americana prendendo in considerazione il forte movimento ebraico e anarchico presente negli Stati Uniti. Il 9 ottobre 1866 venne fondata a New York la prima organizzazione anarchica ebraica denominata: “Pionieri della Libertà”. Questa Organizzazione assunse il compito di diffondere idee tra gli ebrei migranti dell’Europa dell’ Est avendo tra le fila personaggi come Emma Goldman e Berkman. Contemporaneamente nacquero altri gruppi anarchici ebraici a Fhiladelphia e fiorirono una marea di giornali e periodici anarchici in lingua yiddish come il settimanale: “Verità”. Sempre a New York nel 1910-11 fu fondata la Kropotkin Literary Society gestita da J. A. Maryson tra i principali teorici dell’anarchismo americano. L’originalità del pensiero di Maryson consisteva nello svincolare e nel rifiutare sistemi economici pianificati fissi e cristallizzati come il socialismo e il comunismo ritenendo centrale per il pensiero anarchico la sperimentazione e la “creazione” di modelli sociali partendo dal concetto di libertà in una forma totale e perfetta. Maryson si distaccava dall’ortodossia del pensiero ritenendo importante per gli anarchici partecipare alle elezioni quando necessario. Da analisi storiche e filosofiche risulta che sviluppare ricerche tra anarchismo e ebraismo può portare a sorprese come l’opera di Biagini e la ricerca storica dell’America della frontiera quindi relazioni tra anarchismo autoctono americano ed ebraico, d’altronde come non trovare collegamento con colui che viene definito tra i fondatori del pensiero individualista americano Thomas Jefferson che disse: “Il governo migliore è il governo che governa meno” e anche: “La ribellione ai tiranni è obbedienza a Dio”.

Domenico Letizia

Titolo: Ebraismo e anarchismo
Testata: Libertaria

L’anarchismo fra politica ed antipolitica

Stefano D’Errico
Il dominio del socialismo statalista ed autoritario che haimmancabilmente prodotto il capitalismo di stato in tutti i paesi in cui s’è imposto o la socialdemocrazia (per lo più integrata nelsistema di sfruttamento, compartecipe della spoliazione del TerzoMondo), non poteva che compromettere la sinistra su basi planetarie.Il giacobinismo moderno, succube di ciò che Camillo Berneri denunciò già negli anni Trenta come mito “operaiolatra”, ha da una partecorroborato la crescita selvaggia dell’industrialesimo, la crisiambientale ed il saccheggio indiscriminato delle risorse. Dall’altraha quasi imposto un marchio xenofobo contro i contadini (considerati“retrivi” e “piccolo borghesi”) e negato (come il colonialismo) leculture astatali libere dalla soccombenza alla produzione, considerate“involute” dallo stesso Marx. L’etnocentrismo occidentale ha cosìavuto mano libera nell’imporre su basi globali il proprio modellotecnologico, culturale e religioso come “marchio di fabbrica” ed unsistema mercantile assolutamente apocalittico e fine a se stesso.Il primo revisionismo (quello autoritario) ha “sdoganato” nelmovimento dei lavoratori la cosiddetta “statualità proletaria”, ovverol’utilizzabilità del principale veicolo del sistema di sfruttamento(poiché non sono le classi a produrre lo stato, ma è lo stato che nedetermina la nascita). In ambito politico, tutto ciò ha accreditatol’utilizzazione sconsiderata dell’autonomia del partito (nuova classedirigente) in funzione totalitaria. Con buona pace di Lenin, ilcomunismo autoritario ha imposto a milioni di persone un “pensierounico” ante litteram basato sull’assurdo di un materialismo cosiddettoscientifico considerato (su basi idealistiche e deterministe) perfettoed “invincibile”, negando al contempo il metodo sperimentale ed empiriocriticista (libertario e pluralista per definizione). Tali sonole radici della ragion di stato giacobina (del partito fatto stato) e dell’assurdo di una (presunta) eguaglianza conquistabile in assenza di libertà con la dittatura del (sul) proletariato. E vi sono elementi di prossimità anche con le inevitabili accezioni del resto della“modernità” involuta, rappresentate dai totalitarismi di destra (ugualmente statalizzatori) e dalle democrazie apparenti, blindate e consociative. Tali i punti di contatto con il pensiero unico attuale(neo-darwinismo sociale e revanche del capitalismo), impostosi dopo che il crollo del socialismo autoritario ha – nell’immaginario collettivo di una sconfitta “cosmica” – trascinato con sé anche l’incolpevole socialismo libertario. A questi si può imputare infatti solo un vizio sovrastrutturale ed indotto rispetto alla propria ideologia: quello di aver buttato il bambino (la politica intesa comeautogoverno della polis) insieme all’acqua sporca (il politicismo),impedendosi infine di esprimere in tempi e modi dovuti quella critica radicale e di classe al capitalismo di stato che è parte imprescindibile della sua base fondativa dai tempi di Proudhon e Bakunin.
Oggi occorre partecipare ai movimenti radicali, progressivi e d’emancipazione riconoscendone finalmente la necessaria e strutturale pluralità. Se vogliamo riprendere il cammino interrotto non possiamo abbandonarci alle subdole trappole del revisionismo storico, tanto meno dimenticare le nostre origini, come credono di poter fare i fanatici del “post” (“post-moderno, post-socialismo, post-anarchismo”). Né adottare la “religione” del “nuovismo” (“neo-socialismo,neo-anarchismo”), per sua natura troppo eterogeneo, caotico e indistinto. I movimenti (e non vanno trascurate le organizzazioni sindacali di base che adottano un metodo libertario ed autogestionario), devono ricominciare dalla loro autonomia rispetto alla politica, negando proprio la cosiddetta “autonomia del politico”. Se devono ripartire dai propri ambiti specifici e dal territorio, costruendo una rete di democrazia diretta solidarista, associazionistica e comunalista in alternativa al centralismo ed allo stato, occorre soprattutto che imparino onestamente a subordinare la politica all’etica, perché il fine non giustifica i mezzi. Ma, al tempo stesso, non possono negare di assumersi le responsabilità che tutti coloro che sviluppano azione sociale hanno di fronte alla storia. Devono svincolarsi dalla paura di“compromettersi”, da ciò che Berneri indicava come “fobia della degenerazione” (e lo diceva criticando giustamente anche il diktatonnicomprensivo dell’astensionismo). Occorre evitare la confusione fra giudizi di merito e giudizi di valore, ovvero che passi tattici assurgano al ruolo di principi (e che i principi stessi vengano considerati inamovibili persino a fronte di una loro eventuale confutazione, sedimentino un’ortodossia integralista). Quanti vogliono cambiare le cose devono aborrire particolarismi e soggettivismi e dotarsi di un’organizzazione e di un programma collettivo flessibile e sempre riformabile. Occorre ritornare alle basi del socialismo umanitario e libertario,moralmente intransigente, eppur tollerante ed aperto alla sperimentazione. Chi vuole cambiare il mondo deve accettare strutturalmente la necessità del pluralismo e del confronto qualie lementi inalienabili. Sarebbe bene convincersi del fatto che, se è giusto perseguire la perfettibilità, non esiste la perfezione assoluta. L’idea stessa di una società “trasparente” è assolutamente totalitaria. L’idea di potere deve ridursi al diritto di poter fare. Va apertamente rifiutata a priori qualsiasi forma di dittatura, palese o occulta che sia. Il totalitarismo, sotto qualsiasi forma, non può certo costruire la libertà né, tantomeno, l’eguaglianza. In nessun caso, neanche di fronte al cambiamento radicale o alla rivoluzione, si è da soli, ed anche qualora si fosse maggioranza (come capitò agli anarchici spagnoli), la cosa di per sé non esime dalla politica. Occorre quindi tener sempre presente a priori che sono necessarie delle alleanze, riconoscendo l’alterità delle forze in campo e delineando un progetto gradualista che non si ponga in contraddizione con il fine ultimo. Sapendo prefigurare e concordare percorsi comuni con altre forze, senza nessun tabù sulla politica né complessi d’inferiorità o chiusure settarie. Non si tratta di accettare quel riformismo che vuole solo “aggiustare” l’esistente, ma neppure di abbandonarsi ad un massimalismo totalizzante che nega la necessità di una politica dei piccoli passi. In ultimo, proprio il “fine” va concepito come un (problematico) inizio: non esistono palingenesi sociali.

Alle origini del socialismo come essenza antistatalista

luglio 21, 2010 10 commenti

di Domenico Letizia

Il socialismo, il comunismo come la storia li ha presentati al mondo è chiaro dirlo subito: sono stati il più grande fallimento che l’uomo abbia mai conosciuto, non solo, proprio con il socialismo si è raggiunto il massimo di anti-liberalità che l’umanità abbia mai toccato. Ogni forma di socialismo pianificato, di statalismo estremo si è mostrato una aberrante dittatura politica, un regime senza tregua e a rimetterci sempre la pelle per primi sono stati proprio gli anarchici. Il socialismo non è stato solo un fallimento politico ma come riteneva Ludwig von Mises l’esperimento socialista non ha alcuna chance di funzionare, perché poggia su presupposti economici sbagliati. Ma facciamo una analisi storica. Il socialismo nasce come statalismo? Questa è anche la domanda che si è posto Lerry Gambone. In principio i socialisti previdero chi dovesse controllare l’economia? Pensarono che doveva essere lo stato? Non solo Bakunin esaltò il liberismo nord-americano, sia chiaro non era ancora nato il capitalismo coorporativista che oggi conosciamo, ritenendo la libertà dell’industria e del commercio una gran cosa, una delle basi essenziali della futura alleanza internazionale fra tutti i popoli del mondo. Ma diamo un occhiata ai principali teorici “socialisti” del 18 secolo.
San Simon parlava di un sistema di società per azioni volontarie, Owen di comunità intenzionali e cooperative, Flora Tristan di cooperative di lavoratori, Greene di un sistema tecnico bancario che permetteva ai coltivatori e lavoratori di possedere. Anzi, l’essenza antistatalista la ritroviamo proprio in Marx. Vi è tutto un insieme di “eretici” marxisti che ritengono che i primi a intorpidire le acque intorno a Marx siano stati proprio i marxisti. Wolf Bruno in un suo saggio ritiene che Marx non ha mia inventato nessun sistema socialista, e con tutta la sua arroganza intellettuale si prendeva gioco di ogni creatore di sistema. Infatti ha appoggiato i democratici liberali, i libero-scambisti e perfino i conservatori, per Marx il comunismo non era altro che: “il movimento reale che sopprime lo stato di cose esistenti” non un ideale da realizzare.
Larry Gambone si domanda dove è nata la confusione? E direi perché il socialismo è divenuto il male assoluto? Perché socialismo è statalismo? Le correnti dei lavoratori nel 19 secolo si divisero in fazioni ostili, in seguito sotto l’influenza del Fabianesimo e degli Stalinisti con l’ingannevole successo del capitalismo statale nelle nazioni belligeranti, il termine socialismo cominciò a cambiare da una matrice democratica e favorevole alla proprietà ad una controllata, pianificata, centralizzata, insomma il disastroso statalismo che tutti conosciamo. Il socialismo diventò l’opposto della democrazia economica e politica immaginata dalle primi generazioni socialiste e dai militanti del mutuo appoggio. Bisognerebbe ri-analizzare il pensiero socialista e, ne sono convinto, questa analisi cancellerebbe e trasformerebbe stesso la concezione, stesso il termine di socialismo oggi conosciuto.

Testata: Seme Anarchico “periodico di informazione anarchica”
Registrata: Iscrizione n 17/79 Tribunale Brescia
Data: Anno 31 n 20 Luglio 2010

Massoneria e Anarchismo


di Luigi Corvaglia

Un po’ di chiarezza per sgomberare il campo da due contrapposti miti, quello della filiazione del movimento anarchico dalla Massoneria (diffuso dal tradizionalismo cattolico e da Forza Nuova), e quello della assoluta incompatibilità fra movimento anarchico e libera muratoria (diffuso fra gli anarchici meno consapevoli della storia).

“L’8 gennaio 1847, venni accolto come Massone, col grado di apprendista, nella Loggia Sincerità, Perfetta Unione e Costante Amicizia, ‘Oriente di Besançon’. Come ogni neofita, prima di ricevere la Luce, dovetti rispondere a tre quesiti d’uso: Cosa deve l’uomo ai suoi simili? Cosa deve alla sua patria? Leggi tutto…

Roberto Bertoldo e l’anarchia


Carlo Luigi Lagomarsino

Roberto Bertoldo e l’anarchia

Cosa abbia spinto Roberto Bertoldo a dedicare un libro all’anarchia (Anarchismo senza anarchia. Idee per una democrazia anarchica, Mimesis, 2009) per tentare di fornirne, evitando le pieghe sentimentali, una definizione accettabile è da ricercare a mio parere nell’ambizione di dare uno sviluppo coerente alle idee che aveva espresso in altri lavori e soprattutto nei saggi di Nullismo e letteratura (1998). In quei saggi tuttavia si leggeva, seppur in forma eccentrica quanto pervasiva, un riferimento privilegiato ad Albert Camus il quale stranamente in Anarchismo senza anarchia (Mimesis, 2009) è nominato appena e per giunta in nota. Che poi quel riferimento lo si possa ritrovare vivificante anche nei sotterranei di questo nuovo libro è un altro discorso.

Ciò che più sembra aver interessato Bertoldo è palesemente il prendere in esame la vasta letteratura anarchica, individuarvi ciò che gli sembrano dei limiti sia concettuali sia operativi, azzardarne una classificazione e porre tutto in relazione alla visione niente affatto ortodossa che si è venuto formando attraverso vecchie consuetudini e nuove riflessioni. Probabilmente i maggiori punti di contatto si dovrebbero cercare fra quegli autori anglosassoni che, come Colin Ward, seppure pubblicati e ripubblicati, non trovano veri e profondi riscontri teoretici nella galassia (o nelle galassie, se si preferisce) dell’anarchismo continentale. Allo stesso tempo Bertoldo rifiuta come “finti anarchici” quei “libertarian” “free market” americani legati alla “scuola economica di Vienna” – in particolare, ovviamente, Rothbard – sui quali l’analisi, nelle pagine conclusive del libro, si fa sofisticata e allo stesso tempo appena suggerita, per quanto con degli argomenti la cui”apertura” possa somigliare a una “chiusura” (come se dire e suggerire si equivalessero) che l’impoverisce nell’opposizione – che nel contempo può richiamare proprio Camus – fra l’utilitarismo (la “malvagità dell’anarcocapitalismo”) e l’umanitarismo.

Non si può tuttavia rinunciare a pensare che la stessa accusa di un camuffamento attraverso l’evocazione dell’anarchia possa essere indirizzata a Bertoldo per quella che è la sostanza del suo libro. Poco incline all’anarchismo della tradizione bakunista, perplesso di fronte a quello “ecologista” di Bookchin, avverso alla “finzione” anarcocapitalista, Bertoldo sceglie infatti la via di un anarchismo nella democrazia, ma non attraverso la prevedibile idea di un democratismo radicale tutto da inventare, bensì attraverso la sua definizione formale, vale a dire attraverso la democrazia conosciuta. Cosa che fa pensare – seppure ridotto a pura gestione della ricchezza sociale di un’umanità che dovrebbe essere comunque sempre libera di scegliere – allo Stato democratico. Si può immaginare come le frange sentimentali dell’anarchismo, che pure non hanno disdegnato di arruolare un eccentrico come Francesco Saverio Merlino nel proprio pantheon, insorgano contro tale visione. Ciò nondimeno il retro testo di questa visione è possibile interpretarlo come una forma di ortodossia, persino di “collettivismo anarchico”. In questo caso il merito di Bertoldo è sia di aver letto l’anarchismo attraverso le sue ambiguità e aporie, sia di averlo pensato in concreto attraverso esiti formali.

Se nel liberalismo lo Stato non deve mettere naso nell’economia e limitarsi alla difesa di regole e persone, nella visione di Bertoldo dovrebbe prosciugarsi della “politica” per rimanere un semplice magazzino di risorse così da poter aver cura dei bisognosi (e qui si può avvertire l’eco de La conquista del pane di Kropotkin). Il discorso dell’”uguaglianza” democratica si sposta dunque sulle differenze personali per tornare a un’uguaglianza non semplicemente formale. A questo punto la dialettica fra il detto e il suggerito si ripresenta – ma questa volta in modo più equilibrato ed esplicito – nell’analisi che Bertoldo fa dei concetti di individuo, libertà e proprietà – quest’ultima distinta dal possesso. Nelle pagine relative, poste alla fine del primo terzo del libro, Bertoldo – casomai i concetti fossero vaghi, per non dire ambigui, come in effetti sono – mette in atto una assai stretta concatenazione di idee al fine di essere il più preciso possibile, malgrado la consapevolezza della difficoltà. In un certo senso tutto ciò che ho fin qui definito la visione di Bertoldo – suffragata per giunta da un tono assertivo che nelle finali “considerazioni a latere” assume addirittura l’aspetto delle Tesi – è sottoposto di continuo all’azione di forze centrifughe, come la pensosità all’umorismo. Lo è tanto che solo adesso mi accorgo di quanto fosse già indicativo – di serietà e umorismo, di riflessivo e da riflettere – il titolo del libro.

A OGNUNO LA SUA BANCA

di PIETRO ADAMO

Mentre in Europa si discuteva su come le élites potevano guidare gli oppressi alla conquista del potere, gli anarchici americani discutevano di antitrust, di voto alle donne, di diritti e poteri dei consumatori, di difesa della proprietà individuale, di copyright. L’odio per uno stato liberticida e il principio della sovranità dell’individuo non sono affatto patrimonio esclusivo del liberalismo. Intervista a Pietro Adamo.

Pietro Adamo si occupa principalmente del protestantesimo radicale e della cultura politica dell’anarchismo, sui quali ha scritto vari saggi.
Sembra che il liberalismo sia attualmente l’unica tradizione politica rimasta sulla scena. Esistono però tradizioni di pensiero che potrebbero dare spunti interessanti, e fra queste l’anarchismo autoctono americano, così poco conosciuto in Italia. Da dove deriva tale tradizione?
La tradizione dell’anarchismo autoctono americano, che copre quasi tutto l’800, è stata una corrente di pensiero originale e articolata che si è fondata principalmente sulla realtà sociale e culturale americana, con rarissimi contatti con i movimenti e i teorici che hanno costituito l’anarchismo in Europa. Degli esponenti più noti di questa tradizione -Lysander Spooner, Benjamin Tucker, Josiah Warren, Stephen Pearl Andrews-, l’unico che conosceva bene le opere di Stirner, Bakunin, Kropotkin era Benjamin Tucker, che le fece anche tradurre o le tradusse egli stesso, ma fino a lui gli anarchici americani maturarono il loro anarchismo in modo assolutamente autoctono rispetto a quella tradizione europea (che parte da William Godwin e arriva fino a Errico Malatesta, e che comprende Stirner, Bakunin, Proudhon, Kropotkin, Reclus, Faure e tanti altri) che oggi definiamo “anarchismo classico”. Questa elaborazione autonoma americana, come dicevo, durò fino a circa il 1890, quando, con l’immigrazione di italiani, tedeschi, ebrei negli Stati Uniti si ebbe l’introduzione di tematiche tipicamente europee che fecero sì che i leader del movimento anarchico americano del primo ’900 –vale a dire Emma Goldman, Alexander Berkman, Johann Most, non a caso tutti immigrati– avessero come punto di riferimento non la tradizione libertaria americana, ma quella europea, essenzialmente Kropotkin e l’anarco-comunismo.
E mentre l’anarchismo di matrice europea è figlio soprattutto dell’illuminismo francese e del populismo russo, l’anarchismo americano autoctono è figlio del protestantesimo radicale, delle sette dissenzienti della Riforma che furono anche le matrici del liberalismo americano. Non è casuale che il punto focale di questo particolare anarchismo stia proprio nell’estremizzazione di una forma di liberalismo tipicamente americana.
Il fenomeno liberale negli Stati Uniti ebbe uno sviluppo molto diverso da quello europeo e per dare il senso della differenza è sufficiente ricordare le reazioni che i viaggiatori europei che vanno in America tra la metà del ’700 e l’inizio dell’800 annotano nei loro diari. Tutti questi viaggiatori, appena sbarcati a Boston, a New York o in qualunque altro porto, notano immediatamente quanto manchi nella società americana il senso della gerarchia -lo stupore più grande è provocato dagli operai e dai lavoratori del porto che camminano tranquillamente per la strada in mezzo al “gran mondo”, che apostrofano i loro padroni durante il lavoro- e non sono pochi quelli che, col massimo scandalo, scrivono che in tutta la società americana sembra esserci un forte senso di eguaglianza e di non essere trattati come si tratta un aristocratico, o un membro della classe superiore, ma al pari di tutti gli altri.
Uno dei motivi per cui negli Stati Uniti il senso dell’uguaglianza era molto più forte che in Europa è certamente dovuto al fatto che gli emigranti che nel ’600 andavano negli Stati Uniti dall’Inghilterra, appartenevano in genere alle classi basse e medie, mentre gli aristocratici, in linea di massima, non andavano, salvo qualcuno che faceva il governatore o simili.Per questo, nell’America che nasce da questi emigranti che fuggono dall’Inghilterra per sottrarsi alla miseria e alle persecuzioni religiose, manca il senso dell’aristocrazia, dell’autorità, e anche le classi aristocratiche che nascono nei territori dell’America del Nord si creano in un contesto dominato dal senso dell’uguaglianza. Questo contesto dai tratti egualitari segnerà poi l’intera esperienza del libertarismo americano, che avrà sviluppi diversi da quello europeo, lo stesso Stato moderno viene creato negli Stati Uniti in modo diverso da come si viene creando in Europa.
E’ in questo contesto di un liberalismo venato di egualitarismo, che affonda le sue radici nel protestantesimo radicale, che bisogna pensare all’esperienza e allo sviluppo dell’anarchismo americano. Il protestantesimo dei battisti, dei quaccheri, degli antinomiani, dei ranters prende infatti i concetti centrali del protestantesimo e da essi elabora una serie di teorie profondamente individualistiche, facenti perno sulla centralità e sull’autonomia dell’individuo, teorie che a loro volta diventano un solvente per il principio di autorità. Questa operazione è del tutto conseguente al protestantesimo e in un certo senso è analoga a quella fatta da Lutero quando scrisse il suo primo trattato sulla libertà del cristiano. Lutero fu, io credo, il primo nella storia d’Europa ad immaginare un individuo in sé, completamente staccato, autonomo dallo Stato, dalla chiesa, dalla famiglia, dalle relazioni sociali. Con un grande sforzo d’immaginazione, rielaborando in modo potente e originale quel che avevano detto san Paolo e sant’Agostino, nel 1520 Lutero disse che il cristiano è cristiano soprattutto in quanto ha una relazione privata con Dio e con questa affermazione ha dato all’occidente i materiali da cui prenderà le mosse la modernità.
Questa tendenza alla valorizzazione dell’individuo è presente in vario modo nelle elaborazioni di quasi tutti i teologi cinque-seicenteschi, scoppia nella rivoluzione inglese e viene portata negli Stati Uniti, anche se è difficile fare una descrizione, attraverso una serie lineare di autori, di come questa tradizione si sia spostata. Quello che è certo, comunque, è che per tutto il ’700 abbiamo la riemersione di questi temi forti nelle esperienze liberali: non si può non pensare a un personaggio come Thomas Jefferson senza tenere presente come egli prenda dal protestantesimo quella difesa strenua della libertà degli individui che lo porterà ad affermare, lui che fu presidente degli Stati Uniti, che “il miglior governo è quello che governa meno”. Il nocciolo del protestantesimo radicale è come un iceberg che viaggia sotterraneo ed ogni tanto emerge e noi possiamo vedere come Spooner, Andrews, Warren usino costantemente temi protestanti, come li rielaborino a partire dalle idee delle tendenze radicali del Seicento.
Questo non vuol dire che tutti i protestanti radicali fossero libertari, per molto tempo, anzi, molti si caratterizzarono come dei repressori e dei dogmatici e l’esempio è quello della persecuzione delle streghe. Ma a fianco di questa maggioranza esistevano tuttavia delle sette non piccole che, come ad esempio gli antinomiani, pensavano una cosa sostanzialmente anarchica, cioè che un cristiano in stato di grazia non avesse alcun obbligo di ubbidire neanche al decalogo. Loro vivevano questa contestazione radicale del principio di autorità in senso essenzialmente religioso, ma, poiché il sostegno alla vita civile, all’associazione statale, alla famiglia, era la religione, questa affermazione comportava quasi meccanicamente il rifiuto di obbedire alle leggi fondamentali che regolavano la vita associata. Ed infatti, attorno alla metà del ’600, proprio gli antinomiani faranno questa operazione e diranno “Se non devo obbedire al decalogo allora non devo neanche obbedire al giudice o al poliziotto o al parlamento”. Non a caso gli antinomiani, secondo questo stesso ragionamento, saranno fra i primi a praticare l’amore libero e questo era del tutto conseguente alle loro premesse perché, una volta che ti distacchi dall’idea che la credenza in Dio sia un limite e inizi a pensare che è invece uno strumento di liberazione che ti riguarda in quanto individuo, la questione diventa quella di procurarsi i mezzi di una liberazione che non può che essere anche nel quotidiano, nella società e nella politica.
Il carattere predominante dell’anarchismo americano, cioè la difesa a tutti i costi dell’individualità (che è anche il punto di partenza della riflessione dell’anarchismo classico, non solo di Stirner, ma anche di Proudhon e persino di Bakunin), nasce da tutto questo e si innesta in una realtà sociale che fino alla metà dell’800 non vede i grandi centri urbani europei e la forte presenza di un movimento operaio organizzato, ma grandi spazi, piccoli centri, contadini e allevatori. Quando gli anarchici americani ricercheranno i loro precursori, questi verranno trovati in Thomas Paine, in Thomas Jefferson, in Henry David Thoreau, in Ralph Waldo Emerson, cioè in quei pensatori liberal-radicali che, a partire dalla loro formazione protestante, elaborano nel primo ’800 teorie critiche del sistema liberale che si sta affermando.
Ma centrare tutto sull’individuo non porta ad astrarsi dalla realtà? Gli esseri umani sono anche, o soprattutto, prodotto della società in cui vivono…
Gli anarchici americani non pensavano la loro esperienza come una rottura, o un al di là dei nessi sociali proprio perché erano fortemente radicati nella loro realtà culturale ed in virtù di questo avevano anche una forte presa sulla loro società.Josiah Warren, che fu un po’ l’iniziatore di questa tradizione, segue da presso l’esperienza dei villaggi cooperativi di Robert Owen, dà vita a dei villaggi comunitari e a degli esperimenti sociali nel tentativo di creare nuovi modelli di produzione e distribuzione che nel contempo cambino l’uomo.Stephen Andrews era invece il classico letterato newyorkese un po’ bohémien, conosceva più o meno bene oltre trenta lingue ed era attivo negli ambiti più disparati. Ed infatti quelli che si occupano di spiritismo credono che Andrews sia essenzialmente uno spiritista, quelli che si occupano dello sviluppo delle comuni pensano che sia essenzialmente un sostenitore del modello comunitario, altri ancora pensano che sia un utopista, mentre non molti sanno che Andrews è stato soprattutto un teorico di questa “via americana” all’anarchismo. Andrews, fra l’altro, nel I872 fu sbattuto fuori, da Marx, dalla sezione americana della Prima Internazionale (insieme a Victoria Woodhall, che fu la prima donna a candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti quando le donne non potevano ancora votare), perché pare fosse un po’ troppo propenso a propagandare e praticare il libero amore, ma questo era del tutto naturale per la sua personalità di frequentatore dei circoli dei liberi pensatori.
E mentre Lysander Spooner, avvocato, era il classico congregazionista che applicava le lezioni pratiche e morali che aveva imparato nelle campagne della Nuova Inghilterra all’organizzazione della società, Benjamin Tucker, ultimo grande esponente di questa tradizione di pensiero, sa, all’opposto, di vivere in una società capitalista fortemente articolata e già nel 1890 si misurava con realtà economiche, politiche e sociali che per molti versi sono simili a quelle di oggi.Quando si leggono questi autori si ha veramente la percezione di aver a che fare con dei contemporanei, con persone che stanno dibattendo problemi di cui puoi parlare anche tu. Quello che mi colpisce leggendo i classici dell’anarchismo europeo è che, una volta superate le grandi dichiarazioni di principio e le analisi, ti ritrovi con proposte di intervento e progetti di cui oggi non si sa che farsene: Bakunin postula una élite che guidi la riscossa degli oppressi attraverso sollevazioni di operai e contadini -ma oggi viene da dirsi “quali operai, quali contadini?”- ma, ancor prima di questo, c’è la questione dell’impostazione generale, cioè la necessità del rovesciamento della società capitalistica, la contrapposizione frontale ad essa, e non per nulla ancora oggi la maggior parte degli anarchici è di ispirazione fortemente socialista. All’opposto, uno degli sforzi più grandi compiuti dagli anarchici americani è quello di interpretare la loro società, è il chiedersi cosa siano il liberalismo e il capitalismo e danno una risposta inversa a quella che ancora oggi domina in Europa e in America: il capitalismo, secondo Warren, Tucker, Spooner, non è tanto il libero scambio, il mercato, non è un sistema sociale ed economico fondato sull’imprenditore e sulla sua originalità, ma è un sistema che si fonda sul principio della protezione del più debole, quindi si fonda sulla sovranità del consumatore e nella difesa del consumatore deve trovare il suo centro.
Quando sento in televisione parlare Berlusconi o Abete, con la loro idea che il sistema del libero scambio miri al potenziamento delle risorse, ho l’impressione di sentire dei marziani: sono tutte cose vere, è vero che se tu potenzi l’imprenditoria dai più lavoro alla gente, ma il problema vero è precedente, è di come intendere la vita dell’uomo, se essa debba essere incentrata solo sul lavoro e se questo debba necessariamente passare per l’imprenditore. Più o meno tutti, oggi, partono dal presupposto che il capitalismo sia un sistema che, tramite il meccanismo del male necessario -cioè del vantaggio che tu devi dare ai creativi, agli imprenditori-, porta del bene anche ad altri attraverso, ed è questo il punto centrale, la costruzione di lavoro. E’ quanto dice Abete quando sostiene che dobbiamo aiutare gli industriali, perché così gli industriali creeranno posti di lavoro… Invece nell’America della metà dell’800 -un’America dove sorgevano villaggi nuovi ogni giorno, dove non c’erano istituti bancari, dove molto spesso questi nuovi villaggi funzionavano come delle comunità- la cosa interessante è che questi anarchici cercano di rendere l’idea centrale del capitalismo, cioè la proprietà privata e il libero scambio, portatrice di giustizia e libertà. Ed infatti, facendo la stessa operazione di Proudhon che pensava di risolvere il problema della parificazione delle opzioni individuali creando una banca popolare a carattere mutualistico, creano una proliferazione di banche. Spooner arriverà addirittura a pensare alla possibilità che ogni uomo divenga la propria banca, cioè che ognuno si stampi i biglietti che lo impegnano ad un dato debito a fronte dell’acquisto di una data merce, e se si pensa alla comunità ristretta a cui si riferiva Spooner ecco che questo paradosso diventa pensabile, ecco che non c’è più bisogno dell’intervento delle grandi banche dell’est, degli interessi, dell’usura.
Ma, a parte la questione delle banche, credo che il tentativo più noto di riformulare i rapporti fra consumatore e produttore e di pensare alla questione dell’imprenditoria in altri termini, sia stato il “Time Store” fondato a Cincinnati da Warren.Quel che è interessante in questo tentativo, ed è quello che interessava anche a Warren, è come ottenere la giustizia nello scambio. A questo proposito c’è la sua celebre formula per cui “il costo è il limite del prezzo”; Warren, cioè, pensa che il costo di una data merce debba essere determinato soprattutto dal tempo che viene impiegato per costruirla e questo mettere l’orologio al centro del sistema di scambio, al posto della legge della domanda e dell’offerta, altro non è che un sistema per superare le ricadute negative che il capitalismo portava con sé.Lo sforzo, quasi eroico e furiosamente antisocialista, dei pensatori libertari americani è sempre stato di ricercare un sistema di finanziamento dell’imprenditoria, di scambio di prodotti, di valutazione del costo, che permettesse di superare l’antinomia tra produttore e consumatore o, meglio, che permettesse di pensare al rapporto tra produttore e consumatore non come sistema di dominio, ma come sistema di scambio che a sua volta permettesse di pensare all’esistenza del mercato senza che questo si trasformasse necessariamente in un sistema di dominio. Fu comunque un tentativo, a partire dalla sovranità dell’individuo e dal suo diritto alla proprietà come garanzia di questa sovranità, di trovare una soluzione alle ingiustizie che il capitalismo nascente stava creando senza ricorrere a soluzioni di tipo collettivistico, che molto perspicacemente questi anarchici vedevano destinate al fallimento o alla trasformazione in dittatura. Va comunque sottolineato come questo tipo di teorie e sperimentazioni, che affondano nelle prime teorizzazioni liberali, siano poi servite da spunto anche per teorizzazioni liberali successive: è noto che John Stuart Mill, lo afferma egli stesso nella sua autobiografia, prese spunto per il suo Sulla libertà proprio dalle teorie e dalle esperienze di Warren, da cui mutuò anche l’espressione “sovranità dell’individuo”.
Quindi, un punto centrale di questo anarchismo è la difesa della proprietà individuale…
Sì, tutti difendevano strenuamente il principio secondo cui ogni uomo ha diritto all’intero prodotto del proprio lavoro e quindi la proprietà individuale, ottenuta da ognuno col proprio lavoro, era considerata intoccabile. L’unico terreno su cui non c’era unanimità era quello della proprietà delle idee, del copyright, insomma. Spooner era furiosamente favorevole e sosteneva che un uomo aveva il pieno possesso delle proprie idee, al contrario Tucker pensava che le idee non fossero la creazione di un singolo individuo, ma esistessero e i singoli individui si limitassero a scoprirle, motivo per cui l’individuo non doveva essere compensato per aver creato idee.
L’atteggiamento di questi anarchici americani nei confronti della proprietà era, comunque, quello di una difesa strenua e si proponevano di liberalizzare il mercato togliendo di mezzo tutti i monopoli, le corporazioni, le gilde, i trattamenti di favore, la concessione di patenti, perché questi strumenti, a loro giudizio, opprimevano il popolo. Non a caso saranno fra i primi a parlare della necessità di lottare contro le concentrazioni industriali che finiscono per diventare monopoli, parlavano cioè di antitrust. Per loro il prezzo dei prodotti era alto perché su queste cose veniva caricato il peso dei monopolisti, di gente che non lavorava. Dal loro punto di vista l’adozione di una politica liberale era intesa a difendere la gente che lavorava: i bottegai, gli artigiani, gli operai, i lavoratori a giornata. Io penso che ci siano addirittura dei modi per leggere persino Adam Smith in questo modo, ed infatti un anarchico americano contemporaneo, Bob Black, ha scritto delle paginette divertenti su Adam Smith e sul problema del lavoro che fanno intendere come per molti l’adozione del sistema del libero mercato e del libero scambio, cioè del sistema capitalista (anche se “capitalista” è il modo in cui noi chiamiamo la degenerazione del sistema della proprietà privata), può essere vista in chiave protettiva per i ceti più poveri, piuttosto che in chiave berlusconiana…
Questi anarchici dettero vita ad un movimento organizzato oppure rappresentarono principalmente una tendenza culturale?
Furono noti e attivi nel movimento per l’emancipazione femminile, in quello delle comuni, nel movimento per l’abolizione della schiavitù. L’impegno nel movimento abolizionista era una cosa abbastanza normale in quella situazione, ed infatti tutti gli anarchici americani -con l’eccezione di Tucker, che nacque nel 1854 e quindi era ancora troppo giovane per interessarsi a questo-, parteciparono attivamente al movimento abolizionista, che a sua volta contribuì in modo decisivo nel plasmare un certo tipo di anarchismo all’americana, dandogli la spinta per pensare ad un superamento in chiave liberale della situazione liberale in atto. Non a caso Andrews scriverà, nel suo trattato teoricamente più interessante, che vi sono tre stadi dell’evoluzione spirituale dell’umanità: il protestantesimo, il liberalismo, il socialismo, e con “socialismo” Andrews intende l’anarchismo, l’abolizione dello Stato. Nello stesso periodo in cui scrisse questo saggio, pubblicato nel 1851, Andrews partecipò attivamente alla discussione sul voto alle donne e sui loro diritti. Sui diritti delle donne erano tutti d’accordo, infatti ben presto la questione diventò se si dovesse o meno votare, cioè la questione del riformismo, rispetto al quale la discussione rimase per molto aperta. Sul terreno dell’emancipazione femminile, comunque, Andrews non solo affermò la totale uguaglianza intellettuale di uomo e donna, cosa forse abbastanza scontata, ma si lanciò nell’analisi del matrimonio, del sesso, di tutto ciò che viene associato alla gravidanza, e teorizzò gli asili nido, tant’è che nella Unitary Household, una comune newyorkese di cui fu animatore attorno al 1860, erano previsti. Il ragionamento che li sosteneva era che, siccome le donne non dovevano dedicare il loro tempo soltanto ai bambini, ma dovevano tentare di realizzarsi nell’ambito culturale, letterario, politico, era necessario un luogo in cui si potessero portare i bambini. Come dicevo Andrews è senza dubbio il più eclettico, mentre gli altri sono dei teorici più puri, abbastanza alieni da una vita spettacolare come quella di Andrews. Spooner, secondo me, è la massima espressione dell’anarchismo americano, mentre Tucker ne è stato forse il massimo divulgatore. Spooner è totalmente autoctono -lesse in tarda età pochi classici dell’anarchismo europeo, dubito che sapesse dell’esistenza di Bakunin, e l’unico pensatore europeo che conosceva bene era Fourier, ampiamente conosciuto e discusso in America- e quando nel suo celebre saggio sulla costituzione (The Constitution of no Authority) affrontò molti dei problemi fondamentali della teoria politica dell’anarchismo, lo fece dal punto di vista di un protestante radicale americano, senza alcun legame col socialismo europeo.In The Constitution Spooner discute tutti i problemi che nascono dalla rappresentanza politica, dal voto, dalla fedeltà allo Stato, e contrappone ad essi una serie di argomenti che culminano con l’affermazione che la costruzione statale è assolutamente illegittima e in nessun modo può pretendere di esigere una fedeltà. Il nucleo dell’argomentazione di Spooner è che nessuno Stato può a priori, per il solo fatto di esistere, pretendere fedeltà dai suoi cittadini e che essi sono tenuti ad essere fedeli solo ai patti che direttamente accettano, che in quanto tali sono quindi sempre solvibili. Spooner, che come ho detto era avvocato, fece molto discutere anche col suo saggio Trial By Jury (Il processo con giuria popolare) in cui prova la validità di un principio che per il diritto americano è una bestemmia dal punto di vista della pratica, ma che è implicito in alcuni dei fondamenti di quella pratica stessa. Quello che Spooner vuole provare è che i 12 giurati popolari non hanno soltanto il diritto di pronunciarsi sull’oggetto del processo, cioè se un uomo abbia o no violato la legge, ma hanno anche il diritto di decidere se la legge sia giusta o no, quindi hanno il diritto di emanare leggi. Il diritto americano funziona sul sistema della “common law”, cioè sul diritto consuetudinario, e dal punto di vista di Spooner l’innovazione sta nel fatto che non dovrebbe essere la sentenza del giudice a fare la legge, ma il giudizio dei giurati, in quanto sono espressione di quel popolo da cui le leggi traggono legittimità e per il cui benessere queste vengono fatte e ciò è sicuramente un modo molto ficcante e radicale per contestare il principio di autorità.
Questi pensatori non soffrono un po’ di una certa impostazione americana, che non si interessa di quel che accade nel resto del mondo e quindi delle possibili alternative?
Direi che il modo di pensare, di cui questi anarchici sono l’espressione più radicale, è quello che vede nell’America stessa la nuova storia. Questa concezione è ben evidente in un problema chiave delle teorizzazioni degli anarchici americani: l’alternativa riforma o rivoluzione, rispetto a cui tutti finirono per pronunciarsi contro l’ipotesi della rivoluzione.Prima ancora che una scelta, che il risultato di una elaborazione teorica, questo rifiuto della rivoluzione è la presa di coscienza di una situazione in cui sono immersi, di una realtà che non necessita di una rivoluzione per pensare a una nuova storia, essa stessa è la nuova storia e si tratta di spingere in una direzione o nell’altra, senza bisogno di ipotizzare una totale frattura col passato. Corollario di questa mentalità è la consapevolezza che le scelte teoriche, per essere efficaci nella pratica, devono comunque commisurarsi con una realtà particolare e non ha senso, o è addirittura dannoso, ipotizzare sempre un nuovo inizio che non tenga conto di quanto è successo prima e ha portato alla realtà in cui ci si trova ad agire.
Il gradualismo degli anarchici americani nasce dal riconoscimento che non vi è altra possibilità di rivoluzione radicale che non sia rivoluzione delle coscienze. La rivoluzione è la maturazione dell’individuo, non tanto un rivolgimento politico, il quale, quando avviene, non può essere preso in sé stesso, ma solo in relazione alla rivoluzione nelle coscienze. Quando gli anarchici americani si confrontano direttamente con i meccanismi del politico (governi, parlamenti, polizie, eccetera) finiscono quasi sempre su posizioni anarchiche classiche. Quindi i meccanismi del politico vengono visti in senso estraniante, come un processo di continua sottrazione di diritti e potenzialità al cittadino, in sostanza come uno degli elementi fondanti del sistema di dominio di una parte minoritaria della società sulla maggioranza. Questo, tuttavia, non comporta, come invece accade all’anarchismo europeo, l’apertura alla necessità di una dimensione “altra”, utopica. A questo proposito, comunque, direi che le elaborazioni sono decisamente molto sfumate, perché l’unica possibilità che a molti di loro rimane, data la loro formazione ed i presupposti che essa comporta, è ipotizzare un ritorno allo stato della perfetta naturalità, ma è una mentalità che non viene direttamente accettata perché comporterebbe il contrasto fra natura e società, che a sua volta non viene accettato. Spooner, per esempio, contrappone ad ogni istituzione del politico il richiamo ad una società naturale fondata sul libero contratto e sulla libera iniziativa, ma si guarda bene dallo spiegare in concreto come questa si dia e come possa funzionare. Non lo fece Spooner, non lo fece Andrews, non lo fece Tucker, ma lo ha fatto Robert Nozick, un filosofo contemporaneo, in Anarchia, stato, utopia e non è un caso che in nota, dica “Per il retroterra di queste riflessioni si veda Lysander Spooner e Benjamin Tucker…”. L’operazione che gli anarchici americani classici non hanno fatto, cioè come liberarsi del politico senza ricadere in una naturalità impossibile, che altro non sarebbe che forma mascherata di politico, è stata tentata da Nozick e secondo me neanche lui c’è riuscito, semplicemente perché non è possibile. Sempre a questo proposito si possono trovare degli spunti in un paragone fra Spooner e Tucker: mentre in Spooner la contrapposizione fra società “politica” e società “naturale” finisce per essere plateale, nel caso di Tucker la formulazione è molto più produttiva e interessante perché da un lato c’è lo svelamento dei meccanismi autoritari del politico, mentre dall’altro c’è la consapevolezza che è in quell’ambito che occorre andare ad operare, che è una scelta dettata dalla necessità.
In sostanza, quello che insegnano le idee di questo anarchismo è che il fallimento del socialismo come alternativa al capitalismo non significa dover rinunciare ad una spinta libertaria?
Il mio interesse per l’anarchismo americano nasce dall’enorme sensazione d’ impotenza che comunica la sinistra in generale e l’anarchismo in particolare. E’ evidente che il movimento anarchico, che è stato sempre fedele ai dogmi dell’anarchismo europeo classico, è oggi arrivato a una teorizzazione estremamente povera. Anche le recenti e brillanti analisi di Pierre Clastres sulle società tribali e sul potere indiviso o quelle di Murray Bookchin sul legame esistente fra dominio dell’uomo sull’uomo e dominio dell’uomo sulla natura sono quasi cadute nel vuoto, non hanno inciso a livello di coscienza generale, e le teorie libertarie sono del tutto fuori dal “mercato delle idee”. D’altra parte, la sinistra, soprattutto in Italia, è ancora succube del marxismo nelle sue diverse sfaccettature, quindi del legame fra liberazione e socialismo, o di una versione “solidaristica” del liberalismo classico, rappresentata ad esempio da Prodi. Ora, io non dico che il socialismo non sia un’ ipotesi apprezzabile, ma è comunque una soluzione che va ripensata e che si legittima a partire dalla negazione del capitalismo, mentre a me pare che recuperare la lezione degli anarchici americani possa servire per mettere in atto un confronto senza pregiudizi con il liberalismo e col capitalismo che permetta di comprenderne natura, modi e possibilità liberatorie ancora inesplorate.

L’idea liberale di mercato distorta dallo stato

Un bel dibattito tra Domenico Letizia e Luciano Nicolini sul mercato, l’anarchia e lo stato, sulle pagine del mensile Cenerentola: http://www.cenerentola.info/archivio/numero112/articoli_n.112/dib.html

L’idea liberale di mercato distorta dallo stato

Ogni volta che mi dedico al dialogo definendomi anarchico liberale quindi liberoscambista e possibilista noto sempre da parte di chi ascolta una sorta di perplessità che a volte diventa stupore. Dove sta la perplessità? In due semplici paroline: Libero Mercato.
La concezione del libero mercato e del liberoscambismo non è estranea al movimento anarchico, anzi ne è una parte fondante, certo è importante definire cosa intendiamo con libero mercato e ancora più importante è analizzare perché con l’attuale crisi tutti si prestano dai repubblicani ai democratici, dai liberali ai socialisti, dai marxisti ai non-marxisti, tutti proprio tutti, si prestano a gettare la colpa del cataclisma economico al libero mercato.
Il mercato, lo scambio è la cosa più naturale che avviene tra gli uomini, l’uomo è fatto e basa la sua esistenza sullo scambio dalle opinioni al commercio. Quello che lo stato sta cercando di abbattere è l’idea di mercato non il capitalismo perché il capitalismo come lo conosciamo è sempre esistito in quanto collaboratore dello stato e suo strumento, il vero mercato è quello non assistito, quello libero, quello decentrato, contro i cartelli e monopoli, insomma quel mercato che appartiene all’idea del liberalismo classico mai applicato dai governi. Le politiche attuali, anche quelle più liberali, sono tutte unite nel dire che il mercato è fallito e c’è bisogno di stato: ecco cosa cercano veramente i governi nella loro totalità, cercano di rafforzarsi, cercano di divenire ancora più forti, di far capire che l’istituzione e lo stato sono essenziali per la vita dei cittadini che altrimenti vivrebbero circondati dal caos.
E’ qui che noi dobbiamo fermarci e riflettere, tocca a noi anarchici e amanti della libertà riprenderci l’idea di libero mercato, ovviamente creando un nuovo mercato, creando una nuova concezione anarchica e liberale. Di passi ne vedo specialmente nella cultura libertaria americana, l’esponente del mutualismo contemporaneo Kevin Carson si definisce a favore di un “libero mercato anticapitalista”, ritenendo che il capitalismo come comunemente inteso sarebbe impossibile senza stato, pertanto il libero scambio non comporterebbe rischio di sfruttamento.
Anche la tradizione storica dell’anarchismo europeo va ricordata bene, Bakunin esalta il liberismo nordamericano (non erano ancora sorti i trust), e dice “La libertà dell’industria e del commercio è certamente una gran cosa, ed è una delle basi essenziali della futura alleanza internazionale fra tutti i popoli del mondo”. E ancora: “I paesi d’Europa ove il commercio e l’industria godono comparativamente della più grande libertà, hanno raggiunto il più alto grado di sviluppo”. L’entusiasmo per il liberismo non gli impedisce di riconoscere che fino a quando esisteranno i governi accentrati e il lavoro sarà servo del capitale “la libertà economica non sarà direttamente vantaggiosa che alla borghesia”. Ancora oltre si spinge colui che definisco il libertario dei libertari Camillo Berneri secondo cui (n.d.r.) la forma economica anarchica doveva rimanere aperta, e che si dovesse sperimentare la libera concorrenza tra lavoro e commercio individuali e lavoro e commercio collettivisti. La collettivizzazione coatta era quindi da condannare se frutto dell’imposizione e non della libera scelta: l’anarchia non doveva portare ad una società dell’armonia assoluta, ma alla società della tolleranza.
Oggi più di prima è compito degli anarchici conservare e sviluppare idee di mercato diverso e libero e non far i giochetti dei governi che tutti insieme da destra a sinistra condannano il mercato per il controllo e il rafforzamento dello stato, a dir il vero questa direzione è già intrapresa; Pietro Adamo ha ripetuto più volte la necessità di recuperare l’idea di liberalismo e quindi anche di mercato, un nuovo sguardo all’esperienza del Novecento che non si fermi agli effetti pratici recenti del neoliberismo. Una concezione di mercato libertario in cui si incrociano istanze non solo economiche, ma etiche, politiche, sociali, e cosi via. La libera sperimentazione anarchica potenzia tutte le sfere in cui l’uomo agisce, non solo quella economica: proprio dall’interazione di queste sfere dovrebbe risultare una sorta di limite all’ambito del “mercato”. Saremo identificati come nuovi liberisti? Sì, curandoci di sottolineare, ogni qualvolta ne avremo l’occasione, la differenza tra noi e loro.
Recuperare un anarchismo che sia liberale, possibilista e di mercato curandoci di differenziarci sempre dagli pseudo-liberisti, che nei fatti non lo sono, delle forze di centrodestra. Tocca a noi recuperare quello che di buono c’è nel liberalismo e farlo divenire libertario. Rudolf Rocker scriveva agli inizi degli anni Trenta: “Tante strade conducono alla dittatura dalla democrazia e nessuna di queste strade parte dal liberalismo”.

Domenico Letizia

Non concordo

Che la concezione del libero mercato e del liberoscambismo non sia estranea al movimento anarchico è vero; che ne sia una parte fondante è notoriamente falso. Il movimento anarchico, in prima approssimazione, rappresenta la tendenza libertaria del movimento socialista, per cui, sempre in prima approssimazione, è sostenitore di un’economia pianificata. Che poi una pianificazione basata sul libero accordo (e quindi non imposta dallo stato) possa contenere elementi di contrattazione tra i produttori e, quindi, di mercato, è cosa che a chiunque conosca il mondo e, soprattutto, gli uomini che lo abitano, appare ovvia. Ma da qui ad affermare che il liberoscambismo sia “una parte fondante del movimento anarchico”…
Non mi risulta, inoltre, che “con l’attuale crisi tutti si prestano, dai repubblicani ai democratici, dai liberali ai socialisti, dai marxisti ai non-marxisti, tutti proprio tutti (…) a gettare la colpa del cataclisma economico al libero mercato”. In verità, fino a pochi mesi fa tutti, proprio tutti, tranne una piccola parte dei marxisti e gli anarchici, sostenevano che il libero mercato fosse la panacea di tutti i mali; ed anche ora, di fronte a una crisi economica di proporzioni gigantesche, continuano a dire che lo stato deve intervenire per sostenere, o al più per “correggere le storture” del mercato, non certo per abolirlo.
Non conosco le opere di Kevin Carson. Concordo con l’affermazione che “il capitalismo come comunemente inteso sarebbe impossibile senza stato”, rimango invece perplesso rispetto all’affermazione che “il libero scambio non comporterebbe rischio di sfruttamento”: il libero scambio può portare all’arricchimento di alcuni a scapito di altri; e l’arricchimento di alcuni può portare alla costituzione di stati, anche molto feroci, finalizzati al mantenimento delle differenze sociali venutesi a creare e all’instaurazione di un regime basato sullo sfruttamento.
Non mi stupisce il fatto che Bakunin abbia esaltato “la libertà dell’industria e del commercio”. All’epoca lo facevano anche i marxisti, convinti che si trattasse di un passaggio necessario per il superamento del capitalismo. Quanto a Berneri che, è bene ricordarlo, fu ucciso dagli stalinisti proprio per la sua strenua difesa delle collettivizzazioni, era favorevole al lavoro e al commercio individuali soltanto a patto che non comportassero l’utilizzo di manodopera. Probabilmente tale posizione era dovuta alla (giusta) convinzione che, anche all’interno di una ipotetica “società dell’armonia”, ci sarebbe comunque chi preferisce lavorare in proprio, e che sarebbe assurdo, oltre che assai poco libertario, negargliene la possibilità.

Luciano Nicolini

Te lo do io Proudhon (2)

La proprietà non è un diritto naturale

di LuigiCorvaglia

II parte

Figli del secolo dei lumi, liberalismo, socialismo ed anarchismo sono fratelli bastardi. Sono infatti nati dalla assidua frequentazione della dea Ragione con gli elementi della triade rivoluzionaria “Libertà, Eguaglianza e Fraternità”. E’ la secolarizzazione, infatti, che permette di ripensare l’idea dell’ordine immutabile delle cose, è la caduta dell’ancien regime che dà vigore alla cognizione che l’arrangiamento degli individui possa essere costruito dagli uomini secondo principi liberamente scelti e non imposti. I tre elementi che furono il motto del 1789, però, sono in equilibrio instabile. Questo perché l’ordine lessicale, per utilizzare la definizione che sarà di John Rawls, cioè la graduatoria della loro prescindibilità in un ideale “gioco della torre”, può essere molto diverso. Il socialismo ha privilegiato l’eguaglianza, anche a costo di rimetterci in libertà, qualora fosse costretto ad una scelta. Il liberalismo, invece, presenta un ordinamento inverso, premettendo la libertà individuale ad ogni altro fine, inclusa quindi l’eguaglianza. La fratellanza, terzo elemento della triade, risulta in un compendio delle prime due e non può darsi senza una composizione, un equilibrio. Bene, l’anarchismo mira a dare pari dignità alla diade libertà-uguaglianza. Michail Bakunin scrisse: “ la libertà senza il socialismo porta al privilegio, all’ingiustizia; e il socialismo senza libertà porta alla schiavitù e alla brutalità”. Bisogna ammettere che fra tante profezie politiche e “sol dell’avvenire” di cui XIX e XX secolo sono stati infestati, l’unica ad essersi inverata è questa del rivoluzionario russo. In realtà, però, anche l’anarchismo ha spesso sofferto di sbandamenti verso l’uno o l’altro polo. Lo stesso Bakunin, ad esempio, ha teorizzato un collettivismo che è l’ultima fermata del treno libertario prima del capolinea anarco-comunista di Kropotkin. Inverso il discorso per l’individualismo americano di Warren, Tucker e Spooner, teorici di un “liberalismo” radicale. Solo Proudhon, fra i giganti del dell’anarchismo classico, sembra riuscire nel difficile compito di mantenere un equilibrio, instabile come ogni cosa viva, fra i due estremi (e in ciò è, probabilmente, da ricercare il motivo delle accuse provenienti dai contrapposti fronti di situarsi nella trincea opposta). Ciononostante, non trova spazio nella teorizzazione del tipografo di Becancon alcuna utopica idea di fine della storia, alcun sogno di composizione totale della frattura fra le antinomie. L’esperienza umana, egli ci ricorda, è intessuta di contraddizioni e l’idea di una soluzione unica e definitiva che porti alla stasi, cioè alla morte, ciò che è vivo e dinamico non può che risolversi in un fallimento o nell’arbitrio del potere. Questo è forse il motivo dello scarso appeal che questo pensatore ha presso gli apostoli della palingenesi insurrezionalista. Lasciamo la parola allo stesso Proudhon:

I poli opposti di una pila elettrica non si distruggono. Il problema consiste nel trovare non la loro fusione, che sarebbe la loro morte, ma il loro equilibrio incessantemente instabile, variabile a seconda dello sviluppo della società.
(da Teoria della proprietà)

La stessa uguaglianza, per Proudhon, è ben lontana dal risolversi nella piattezza del livellamento che soffochi le individualità, “non è affatto una condizione fissa, ma la media algebrica di una situazione sempre mobile”.
Le antinomie sono irrisolvibili. Inclusa quella fra libertà ed uguaglianza. E allora? Allora, il terzo elemento della triade, la fratellanza non può che risolversi in un dinamico sistema che, accogliendo l’uno e l’altro elemento della diade, sia radicato nella Giustizia:

Scartate l’ipotesi comunista e l’ipotesi individualistica, la prima in quanto distruttrice della personalità, la seconda in quanto chimerica, non resta da prenderne in esame che un’ultima sulla quale del resto la moltitudine dei popoli e la maggioranza dei legislatori sono d’accordo: quella della giustizia. (da La Giustizia nella rivoluzione e nella Chiesa)

Ecco. Giustizia. Questo concetto è fondamentale in Proudhon e l’accezione nella quale egli la considera merita una spiegazione. Proudhon è giusnaturalista. Egli, cioè, è convinto dell’esistenza di indiscutibili norme di diritto naturale. Così il suo concetto di giustizia, come è stato criticamente notato, è quello di un dato immanente e quasi metafisico da scoprirsi con l’uso della Ragione, non da costruirsi storicamente. Ciò ne fa, nel bene e nel male, un chiaro figlio del suo tempo. La giustizia è, la Giustizia, indipendentemente dalla legge, la quale può essere conforme o meno ad essa, è unica e data. Non, però, come qualcosa di esterno e superiore all’uomo, bensì di immanente (“è in noi come l’amore, come le nozioni del bello (…) La giustizia è umana, del tutto umana, nient’altro che umana”, ibidem). Bene, proprio illuminati da questo faro, tanto l’individualismo quanto il socialismo gettano ombre deformi che feriscono il senso del giusto. La cosa qui assume estrema importanza. Ciò perché il richiamo al “diritto naturale” è tradizionalmente la base delle teorizzazioni che, partendo dalla fonte di Locke e scendendo per li rami fino allo stagno di certo sedicente liberismo radicale, vedono la giustizia nel rispetto di diritti “auto-evidenti” quali la proprietà. Eppure, per Proudhon la proprietà è un furto. E’proprio il suo essere un giusnaturalista, quindi, che permette a Proudhon di scardinare la cassaforte ideale dei proprietari. Egli, cioè, si muove sullo stesso terreno di coloro che intende criticare, risultando pertanto particolarmente efficace nel marcare le contraddizioni nel discorso di chi, partendo dalle stesse premesse, intendeva – e intende – giustificare la proprietà quale diritto naturale. Vediamo come. Innanzitutto, egli nota che, presentandosi quale diritto “solo in potenza, come una facoltà inattiva e fuori servizio”, viene meno il criterio di universalità che caratterizza necessariamente i diritti naturali. Sarebbe grottesco affermare che “tutti gli uomini hanno un diritto eguale a proprietà ineguali”. I diritti, infatti, sono “inalienabili” per definizione e non suscettibili di crescite e diminuzioni. Soprattutto, però, avendo la Dichiarazione dei diritti individuato i quattro diritti imprescrittibili dell’uomo in quelli alla libertà, all’uguaglianza, alla sicurezza ed alla proprietà, Proudhon nota un elemento stonato in questo quartetto. Se realmente realizzati e rispettati, infatti, i diritti alla libertà, all’uguaglianza e alla sicurezza si completano a vicenda e portano alla concordia sociale. Armonizzano. Non funziona così per la proprietà. Scrive :

La libertà e la sicurezza del ricco non soffrono della libertà e della sicurezza del povero: anzi, possono rafforzarsi e sostenersi scambievolmente: al contrario, il diritto di proprietà del primo deve essere continuamente difeso contro l’istinto di proprietà del secondo. (…) Così il ricco ed il povero sono in uno stato di diffidenza e di guerra reciproca! Ma perché si combattono? Per la proprietà; dunque la proprietà comporta necessariamente la guerra alla proprietà!
(da Che cos’è la proprietà?)

Se, in altri termini, gli altri tre diritti portano all’avvicinamento, all’unione, alla socialità, la proprietà si palesa quale diritto antisociale, dotato di una forte carica disgregante. Non è quindi su tali basi che può considerarsi un diritto “naturale”. Su quali allora? I giusnaturalisti hanno ancora due carte, quella del “lavoro” e quella dell’ “occupazione”. Partiamo da quest’ultima. E’ idea ben nota agli anarcocapitalisti, che rivendicano il naturale diritto all’occupazione della “terra” – intesa latamente come qualunque mezzo di produzione che non sia già in mano ad altri. Qui Proudhon riprende un discorso di Cicerone:

Il teatro, dice Cicerone, è comune a tutti; e tuttavia il posto che ciascuno vi occupa è detto suo; nel senso che è da lui posseduto, non che è di sua proprietà. Questo paragone annienta la proprietà; esso implica inoltre l’eguaglianza. Posso forse in teatro occupare simultaneamente un posto in platea, un altro nei palchi ed un terzo in galleria? (…) Secondo questo paragone, ciascuno può sistemarsi come preferisce nel suo posto, può abbellirlo e migliorarlo: ma la sua attività non deve mai superare il limite che lo separa dagli altri”

(da Che cos’è la proprietà?)

In altri termini, se ogni uomo ha eguali diritti di lavorare e produrre, è ovvio che debba godere anche del diritto di occupare la terra, i mezzi di produzione. Da ciò non discende affatto la proprietà dei mezzi, ma solo il loro usufrutto. Ciò per un concetto tanto logico quanto semplice. Se nel teatro di Cicerone entrano altre cento persone, chi già vi si trovava ad usufruire degli spazi, si stringerà per far posto ai nuovi arrivati. Toglierà cappelli e cappotti dai sedili vicini, ad esempio. Ciò vuol dire che il diritto di occupazione è variabile. Insomma, “poiché la misura dell’occupazione dipende dalle condizioni variabili dello spazio e del numero, la proprietà non può costituirsi” (ibidem).
Ora i vari lettori che si imbattono nella definizione della libertà come furto non dovrebbero più incorrere nell’errore che fu anche di Marx e di Stirner, quello di cogliervi, secondo il noto luogo comune, una contraddizione (“come si può rubare se non c’è proprietà?”) . Il furto è nel fatto che chi si considera proprietario si appropria, sottraendolo definitivamente a tutti gli altri, di un bene a cui tutti hanno uguale diritto d’usufrutto.
Arriviamo ora all’argomento principe, il pilastro della teoria della proprietà. E’ quello del “lavoro”. L’idea lockiana del mescolamento del proprio lavoro alla terra fondandone la proprietà. Il proprietario ha migliorato la terra e ha creato il prodotto. “Ma chi ha creato la terra? Dio. In questo caso proprietario ritirati”, scrive Proudhon. Se è innegabile che chi produce qualcosa ha il diritto di possedere tale prodotto ( possesso), di certo non può vantare diritti sullo strumento che non ha creato (proprietà). “Il pescatore”, continua il francese, “che, sullo stesso litorale, è capace di prendere più pesci degli altri diventa forse, per questa sua abilità, proprietario dei paraggi della pesca?” (Che cos’è la proprietà?) .
Ebbene, a dimostrazione del fatto che la lettura di Proudhon non si limita alla mera e sterile ricerca dello storico, c’è proprio l’attualità della questione del lavoro che è da sempre uno degli ambiti più molli del fianco del liberismo estremo, ad esempio del cosiddetto “anarcocapitalismo”. Si è, infatti, molto discusso sulla vaghezza del concetto di lavoro. Sembra che a Murray Rothbard, principale teorico dell’anarcocapitalismo, basti il lavoro di recintare un terreno per renderlo di sua proprietà. In realtà, a voler seguire la lettera della teoria, questo lavoro potrebbe comportare al massimo la proprietà della sola striscia posta al di sotto della recinzione. Seguendo questo discorso, dando per scontato che nulla in una recinzione migliora un luogo, e che quindi la sola azione permetterebbe di sancire una proprietà, anche urinare in mare dovrebbe rendere padroni di un certo tratto di costa. Produrre onde radio rende padrone dell’atmosfera? Quelli che paiono giochetti logici ed elucubrazioni da ossessivi, invece, sono argomento di dibattito nel mondo dell’individualismo libertario che alcuni porrebbero a “destra” dello scenario politico. Comunque, pur presupponendo che sia possibile definire cosa sia lavoro e cosa no e perfino accettando che ogni lavoro comporti un miglioramento, cosa oggettivamente definisce il “miglioramento” nello stato della “terra” rispetto alla condizione precedente? Produrre onde radio migliora o peggiora l’atmosfera? Il miglioramento percepito da alcuni fruitori della “terra” in che modo comporta la necessaria accettazione della proprietà da parte di quanti gli usufruttuari che non ritengono che detto lavoro abbia comportato un miglioramento? Questi sofismi, pur nei loro tratti caricaturali, evidenziano la vaghezza dei criteri in merito. Come non bastasse, procedendo ancora ad un ragionamento per assurdo che dia per scontata la logica dell’appropriazione tramite il lavoro, il punto centrale che invalida l’idea “naturale” del diritto di proprietà frutto del lavoro è nella estrema contraddittorietà che si coglie ponendosi la domanda di cosa giustifichi la proprietà dei latifondisti o dei proprietari d’industria. Questi, ricorda Proudhon, posseggono enormi territori (o fabbriche manifatturiere) che non lavorano ma da cui ricavano delle rendite. Probabilmente essi hanno lavorato in passato e, quindi, acquisito il diritto alla proprietà di tali beni. Ma oggi? Il contadino salariato, il colono, l’operaio continua a lavorare quelle stesse terre, quegli stessi mezzi di produzione e ne trae dei prodotti. Eppure non ne acquisisce la proprietà. In base al principio per cui il lavoro fonda la proprietà, questi avrebbe diritto, non solo ai prodotti, ma anche ad una quota della terra. Ma ciò non avviene. Insomma, ciò che fu valido per alcuni, non può più essere valido per altri. Ciò è un controsenso. In definitiva, la proprietà, che l’autore distingue nettamente dal possesso, è il fatto economico attraverso il quale un oggetto nelle proprie disponibilità diventa creatore d’interessi. (l’intraducibile droit d’aubaine).
Non solo si ritrova in queste considerazioni il germe del concetto marxiano di “alienazione”, ma a Proudhon è da attribuirsi anche la paternità di quella teoria del “plus-valore”, generalmente considerata parto del pensatore tedesco. Il francese la esprime nei termini della forza collettiva:

Duecento granatieri hanno alzato sulla base in qualche ora l’obelisco di Luxor; si suppone che un solo uomo, in duecento giorni, ne sarebbe venuto a capo? Tuttavia, per il conto del capitalista, la somma dei salari sarebbe stata la stessa.

(Che cos’è la proprietà?)

Il profitto del capitale è nella sproporzione fra le somme consegnate ai lavoratori per le loro singole forze e il prodotto collettivo creato, frutto di una forza collettiva non conteggiata ed intascata dal capitalista. Un furto, quello della forza collettiva, perpetrato sulla scorta del furto primordiale, la proprietà.

In conclusione, ci dice Proudhon,
La proprietà non esiste per se stessa; per prodursi, per agire, ha bisogno di una causa esterna, che è la forza (l’ocupazione) o la frode (far credere che dal lavoro discenda la proprietà).


(da Che cos’è la proprietà)

In realtà, ce ne sarebbe un’altra, ma nulla ha a che fare con i diritti naturali: è l’accordo. Ma questa è un’altra storia.

Continua…..

Rothbard o Bakunin?


Rothbard o Bakunin? L’avvenire di un’illusione (di alternativa)
di Luigi Corvaglia

“Nazionalsocialismo o caos bolscevico?” recitava un manifesto che la Gestapo aveva fatto affiggere nelle città tedesche, reagendo però molto male quando qualche ignoto si preoccupò di incollarvi sopra dei foglietti con su scritto “Erdapfel oder Kartoffel?” (“patate o patate?”). Paul Watzslavick, da psichiatra, ci descrive i deleteri effetti prodotti dall’illusione di alternative apparentemente antitetiche ma risultanti, alla fine, entrambe afferenti ad un unico polo di una coppia di opposti più generale.
Nell’ambito ideologico da cui lo slogan citato scaturisce, ad esempio, non si dà una terza possibilità, cosa che fa percepire i due concetti come opposti assoluti. Da un punto di vista “democratico”, però, le due possibilità afferiscono entrambe al polo del totalitarismo, al quale è da contrapporre, quale antitesi, la “democrazia”. I due poli costituiscono, dunque, una meta-coppia di contrari. Searles, d’altro canto, descrive dei pattern comunicazionali che definisce “sistemi per far diventare matto l’altro” e, anche in questo caso, si tratta di creare situazioni in cui il partner comunicativo venga ingabbiato in una situazione di scelta impossibile fra due opzioni solo apparentemente alternative ( tertium non datur). Fatto è che, laddove non si riesca a cogliere una terza possibilità, forse è il caso di guardare meglio. Lo stesso Watzslavick, in una nota del suo “Il linguaggio del cambiamento”, pur temendo che l’indagine potrebbe sfociare nella metafisica, riconosce che una metacoppia di contrari (quali, appunto, dittatura e democrazia) potrebbe, a sua volta, essere iscritta in un unico cerchio concettuale che diventa nuovo estremo di una nuova coppia di opposti di livello superiore. Democrazia e dittatura, infatti, rientrano entrambe nel cerchio della statualità. “Statalismo o antistatalismo?” sarebbe la domanda. All’aumentare del livello concettuale, diminuisce la capacità inibitoria ed ansiogena della proposta. Fermandoci momentaneamente a questo livello e curiosando in uno dei due termini della diade in considerazione possiamo valutare quanto ci si trovi in alto, cioè possiamo chiederci se l’ambito del pensiero antistatale sia scevro da simili trappole logiche. Si direbbe proprio di no. Non è un azzardo affermare che l’elemento di demarcazione più netto fra gli anti-statalisti sia costituito dalla questione del mercato e della (propedeutica) proprietà privata. La domanda, insomma, diventa: “comunismo anarchico o anarco-capitalismo?”. Anche qui si ha l’impressione che ci si trovi in presenza di opposti assoluti e, nell’ambito culturale di riferimento, una volta, cioè, messa fuori dalla competizione l’opzione statale, non sembra darsi una terza possibilità. Chi scrive ritiene, invece, anche questo un esempio di difficile scelta fra patate e patate. Le navate delle chiese anarchiche risuoneranno a questa affermazione delle eco dei gridolini delle vergini violate di cui, si sa, esse traboccano.
Del resto, questa sarebbe la reazione del bolscevico che si vedesse accumunato al nazionalsocialista, ma, dall’alto del meta-livello, gli uomini si vedono molto piccoli e si assomigliano molto più di quanto non si direbbe guardandoli da quella distanza alla quale, si dice, “nessuno è normale” . Entrambe le categorie considerate (anarchici tradizionali e “libertarians”), infatti, presentano analoghe caratteristiche di integralismo e conseguente cecità selettiva alle caratteristiche omologhe (o “omologabili”) dell’altra proposta. L’abolizione della proprietà o la sua estensione diventano la panacea di ogni male. Ognuno utilizza la propria concettuale cassetta degli attrezzi per fronteggiare qualunque tipo di avversità.
Come diceva Mark Twain, “quando disponi di un martello tutti i problemi ti sembrano chiodi”. Utilizzando la terminologia dell’epistemologo Lakatos, possiamo dire che a difesa del proprio “nucleo metafisico” i partigiani di entrambe le posizioni utilizzano molte “euristiche negative”, cioè dei processi logici volti a salvaguardare la propria teorizzazione dalle invalidazioni, e pochissime “euristiche positive” volte a modificare la propria concezione al fine di inglobarvi gli elementi di realtà contrastanti. La consapevolezza di questo stato di cose muove quindi i fautori dell’ “anarchismo analitico” ad una revisione del pensiero e dell’azione anti-statale. La definizione è ripresa dal “marxismo analitico” (Cohen, Elster, ecc.), la scuola di pensatori tesa ad una analisi concettuale rigorosa dei fondamenti generali e dei micro-fondamenti particolari della visione marxista per produrre una proposta dotata di coerenza interna, chiarità espositiva e rigore intellettuale. Simile l’intendimento di questi anarchici critici. Un’opera questa che comporta il far pervenire alla coscienza il fatto che l’utopia anarchica classica si scontra con molte contraddizioni, la prima delle quali è nel fatto che è una concezione della libertà che, non tollerando altro da sé, si basa su un principio anti-libertario. In altri termini, un’organizzazione comunista, se vuol dirsi davvero non autoritaria, non può non ammettere il diritto di exit e la secessione individuale, consentendo la produzione separata e autonoma di forme organizzative alternative. Tuttavia, se così è, il comunismo anarchico finisce col negare sé stesso, consentendo il riprodursi del mercato e della concorrenza. D’altro canto, questo lavoro significa anche considerare che l’anarco-capitalismo rothbardiano tende ad identificare il mercato col capitalismo storico ed a presentare quest’ultimo come antagonista dello stato, piuttosto che come il prodotto della deformazione che lo stato produce sul mercato. Mercato, quindi, è qui termine da intendersi quale confronto, scambio, concorrenza, non solo e non tanto di beni, ma anche di idee, concezioni, stili di vita, pretese ed aspettative, è parola che sta a significare l’autopoietico organizzarsi, l’ acefalo processo dal quale è sempre scaturito tutto ciò che naturalmente regge al tempo fra le creazioni umane: le lingue, i costumi, i sistemi simbolici di scambio, il diritto consuetudinario, e così via. La proposta di questo “nuovo”, ma in realtà vecchissimo, anarchismo prevede quindi il recupero dello spirito “laico” e genuinamente “liberale” che informa da sempre il pensiero libertario meno perso dietro alle chimere dell’organicismo mitico di quel “popolo” uniformemente senziente ed agente su cui ironizzava Berneri. Tertium datur.
Certo, per alcuni anarchici duri e puri che conoscono Proudhon per sentito dire e che credono che Malatesta e Fabbri fossero dei comunisti e non degli apologeti del commercio, del confronto e della libera sperimentazione, la sole parole “mercato” e “liberale” sono in grado di elicitare anatemi e scomuniche. Korzybski sta però lì a ricordarci che la parola cane non morde. Altrettanto fanno gli anarchici analitici. In definitiva, la questione, al meta-livello, diventa “ottusità ideologica o analisi critica?”. E così parlando ci siamo allontanati dal campo di patate.

Da: http://tarantula.ilcannocchiale.it/?id_blogdoc=1127164

Alla conquista della sinistra

Anthony Gregory, scrittore e musicista che vive a Berkeley, in California, analista di ricerca all’Independent Institute, ci spiega come e perchè i libertari possano, anzi, debbano, cercare consensi anche a sinistra. La traduzione è di Flavio Tibaldi.

I principi fondamentali

Dovrebbero i libertari rivolgersi alla sinistra? Perché potrebbe essere importante? E che approccio dovremmo usare nel farlo?
Come libertari, abbiamo l’obiettivo di un mondo più libero. Malgrado ciò che alcuni potrebbero pensare, il grado della libertà umana in una società non è solo una funzione del tipo di persone al potere o inserite nella struttura dil governo. È, alla fine, un riflesso dell’ideologia pubblica. Quello che la persona media crede ha un grande effetto su come funziona lo stato e su ciò che fa. Se la stragrande maggioranza degli americani si opponesse fondamentalmente alla proibizione delle droghe, per esempio, la guerra contro la droga non potrebbe persistere. Se la maggioranza volesse vietare l’alcool, probabilmente sarebbe vietato. La tendenza del governo è di espandersi e crescere nelle aree della vita dove incontrerà la minor resistenza, compreso la resistenza del pubblico. È per questo che i regimi autoritari dedicano considerevole attenzione alla propaganda ed alla censura.
Il motivo per cui gli Stati Uniti hanno goduto così tanto della libertà interna, rispetto almeno a molte altre nazioni, è l’eredità di quel liberalismo classico che è stato prevalente dalla loro fondazione. Se un’ampia maggioranza di nordcoreani fosse jeffersoniana, persino la loro dittatura militare, per quanto forte possa ora sembrare, si sbriciolerebbe. Il popolo, per quanto riluttante, deve tollerare lo stato, perché esso possa sopravvivere. Lo stato, alla fine, è limitato dalla pubblica opinione.
L’importanza del movimento e dell’ideologia libertaria va quindi molto al di là di quel che può essere visto nella sola politica elettorale. Anche quando nessun libertario vince le elezioni, una cultura relativamente libertaria può impedire allo stato di espandersi quanto farebbe in una cultura più statalista. La misura in cui i liberali ed i conservatori accettano determinate premesse del pensiero libertario – il concetto della proprietà privata, il rifiuto della schiavitù, l’uguaglianza dei diritti davanti alla legge – si riflette nelle politiche che i liberali ed i conservatori semplicemente non tollereranno e quindi nelle libertà che rimangono affinchè tutti noi ne possiamo godere.
Se vogliamo maggiore libertà, abbiamo bisogno di più libertari per contribuire a diffondere queste idee ed ad aiutarle a raggiungere la massa critica nel sostegno popolare. E poiché una percentuale molto importante del popolo è di sinistra, questo fatto da solo richiede di provare a promuovere i principi libertari fra i pensatori e gli attivisti di sinistra. Meno libertarie sono la sinistra o la destra, ,maggiore il pericolo per la libertà.
Molti libertari esitano di fronte all’idea di rivolgersi alla sinistra, supponendo che la sinistra si opponga chiaramente di più della destra alle idee libertarie. Ma non possiamo trascurare la necessità di rivolgerci alla sinistra. È vero che molti libertari sono arrivati da destra, come il movimento di Goldwater più di 40 anni fa, e nella misura in cui i conservatori possono essere avvicinati e convinti dei meriti del principio libertario, questa è una gran cosa e non dev’essere trascurata. Nondimeno, rivolgerci alla sinistra è per alcuni versi più facile del rivolgerci alla destra e spesso non richiede alcun compromesso con il principio per arrivare ad un punto d’incontro, come sembra talvolta che accada con la destra.

Sinistra, destra e libertà

Probabilmente la maggior parte dei libertari che deviano considerevolmente dal principio libertario su questioni importanti lo fanno verso destra. È più comune trovare un libertario che ha un punto di vista statalista sulla guerra o sull’immigrazione che sulla previdenza sociale o sul controllo delle armi. Ma l’errore del deviazionismo a destra va ancora oltre. Molti libertari, nel tentare di abbracciare il governo limitato, finiscono per difendere un governo che non è limitato affatto. Poiché la polizia e l’esercito sono le due funzioni principali che molti libertari sono felici di lasciare nelle mani del governo, a volte dimenticano che quelle agenzie costituiscono il braccio violento dello stato, incaricato di applicare con la forza le molte politiche coercitive e socialmente distruttive a cui noi tutti ci opponiamo. La brutalità della polizia, la tortura in tempo di guerra, le violazioni del processo dovuto e le uccisioni di civili – alcune delle peggiori attività di cui il governo è capace – in effetti arrivano dagli uffici “legittimi” dello stato.
Non solo i libertari che tendono a destra certe volte purtroppo tollerano le peggiori attività del governo, a volte confondono anche il sistema economico corrente di privilegio corporativo e di saccheggio come un certo tipo di approssimazione del capitalismo di mercato. Questo può condurre ad un malinteso della realtà economica, ad una simpatia eccessiva per determinate grandi aziende che in realtà fanno pressioni e traggono giovamento dal grande governo, ed un obliquo senso della priorità riguardo i programmi governativi è quanto di più distruttivo vi sia per la libertà. Un esempio classico è il rivenditore libero che vede i buoni per i generi alimentari come anatema socialista ma non è altrettanto preoccupato dal complesso militar-industriale da miliardi di dollari.
L’errore del deviazionismo a destra ha ispirato Murray N. Rothbard, il grande economista, teorico e storico libertario, a scrivere il suo classico “Left and Right: The Prospects for Liberty” nel 1965. Il saggio sfidava la fallacia che il libertarismo fosse una dottrina conservatrice e metteva in guardia contro le deviazioni a destra. Scriveva che:
I libertari di oggi usano pensare al socialismo come l’opposto polare della dottrina libertaria. Ma questo è un errore grave, responsabile di un grave disorientamento ideologico dei libertari nel mondo attuale. Come abbiamo veduto, il conservatorismo era l’opposto polare della libertà; ed il socialismo, anche se “a sinistra” del conservatorismo, era essenzialmente un movimento confuso e moderato. Era, ed ancora è, moderato perché prova a raggiungere scopi liberali mediante l’uso di mezzi conservatori.
“Mezzi conservatori” si riferisce agli strumenti ed alle istituzioni politiche del governo: tasse, polizia, prigioni e tutto il resto. Effettivamente, per la maggior parte della storia dell’umanità, il governo è stato un’istituzione conservatrice, dal lato della reazione, del privilegio economico, della teocrazia, della patriarchia e del militarismo. I mezzi e i fini assumono grande importanza considerando il rapporto fra il libertarismo e la sinistra e la destra. Come spiegava Rothbard:
Il socialismo, come il liberalismo e contro il conservatorismo, ha accettato il sistema industriale e gli obiettivi liberali della libertà, della ragione, della mobilità, del progresso, dei livelli di vita più elevati per le masse e di una fine alla teocrazia ed alla guerra; ma ha provato a raggiungere questi scopi mediante l’uso di mezzi conservatori incompatibili: statalismo, pianificazione centrale, comunitarismo, ecc. O piuttosto, per essere più precisi, c’erano inizialmente due diversi filoni all’interno del socialismo: uno era il filone di destra e autoritario, da San-Simon in giù, che glorificava lo statalismo, la gerarchia ed il collettivismo e che era così una proiezione del conservatorismo che provava ad accettare e dominare la nuova civiltà industriale. L’altro era il filone relativamente libertario e di sinistra, esemplificato nei loro modi diversi da Marx e da Bakunin, rivoluzionario e molto più interessato a realizzare gli obiettivi libertari del liberalismo e del socialismo: ma in particolare distruggere l’apparato statale per realizzare l'”appassimento dello stato” e la “fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.”
Anche se i liberali di sinistra moderni favoriscono i mezzi statal-socialisti, che sono immorali e socialmente distruttivi, hanno spesso obiettivi lodevoli, soprattutto riguardo all’elevazione dell’uomo comune. Tuttavia è un errore andare troppo oltre ed assumere che i liberali di sinistra siano superiori ai conservatori in generale. Così come c’erano “due filoni differenti all’interno del socialismo,” anche l’odierno movimento liberale di sinistra ha tendenze sia autoritarie che anti-autoritarie. Una chiave per la conquista della sinistra è identificare quanto libertario e quanto statalista sia un dato sostenitore della sinistra.

Discutere con la sinistra

Alcuni esponenti della sinistra si preoccupano di più per le libertà civili che dei loro progetti di “socialismo preferito”, atri fanno l’opposto. Nel corso della storia, molti esponenti della sinistra hanno persino difeso regimi socialisti, dai bolscevichi in Russia alla Cuba di Castro, credendo che i loro orribili risultati sui diritti umani e sulla libera espressione valessero i presunti benefici dei loro programmi socialisti. Altri troveranno questo punto di vista oltraggioso. Alcuni liberali di sinistra pensano che persino i criminali corporativi dovrebbero avere un adeguato processo. Altri diranno butta via la chiave.
Facendo alcune domande, potrete spesso capire se un liberale di sinistra è più interessato alla libertà personale e quindi un potenziale convertito a libertarismo; o se è più interessato alla democrazia sociale direttiva e quindi più incrollabilmente votato allo stato. Un altro buon indizio è quanto scettico sia verso il potere del governo anche quando il “suo” partito è al governo. Con tutti i loro difetti, molti nelle ACLU erano implacabili nella condanna delle violazioni di Bill Clinton della privacy e del quarto emendamento. Tali persone hanno una comprensione limitata della libertà, ma almeno la prendono seriamente ed hanno determinati standard per quanto riguarda le libertà civili che non abbandoneranno capricciosamente per settarismo.
Un’altra considerazione è semplicemente quanto ostile qualcuno sia verso la libera impresa: pensa che la proprietà privata sia inerentemente diabolica, o che i mercati siano sostanzialmente giusti ed efficienti ma che abbiano solo bisogno di qualcuno che li ammorbidisca? Il primo è probabilmente meno probabile che adotti il libertarismo del secondo, che potrebbe avere bisogno soltanto di alcune lezioni di economia per capire che persino piccole dosi di socialismo sono inutili e distruttive.
Inoltre, un liberale di sinistra che sia radicalmente pacifista e contro lo stato di polizia sarà spesso ricettivo per le idee libertarie, poiché già diffida dell’establishment e riconosce che lo statalismo può causare danni molto reali e significativi agli esseri umani. La combinazione migliore ed in qualche modo la più rara, è un liberale molto più pacifista e contro lo stato di polizia che anti-capitalista. Questo è in qualche modo raro perché, purtroppo, molti esponenti della sinistra sono più radicalmente anti-autoritari quanto più sono anti-mercato, mentre quelli che sono più moderati nelle loro condanne della libera impresa sono spesso anche più tolleranti verso l’impero e l’establishment.
Nel comunicare con la sinistra, il migliore approccio, in ogni caso, è di rimanere aderenti al principio. Spesso gli esponenti della sinistra sono abituati a decostruire l’ipocrisia della destra, che proclama di essere per il governo minimo ma difende il Big Brother e le gigantesche burocrazie militari. Rimanendo fedeli al radicalismo ed al principio, un libertario può distanziarsi da tale ipocrisia della destra e dimostrare che le sue posizioni provengono da un pensiero rigoroso e di principio e da una genuina simpatia per le vittime dell’aggressione dello stato. A volte gli esponenti della sinistra assumono troppo facilmente che tutti siano delle vittime, ma i libertari dovrebbero comunque non sottovalutare mai il tributo enorme che il governo impone sui prigionieri, sui civili stranieri in tempo di guerra e sui poveri, sia direttamente che per mezzo del grande costo opportunità provocato dalle grandi spese pubbliche e dal risultante spostamento della creazione di ricchezza del settore privato. Dal momento che il capitalismo effettivamente serve i poveri come nessun altro sistema economico fa, in un certo senso le persone più povere sono le vittime primarie degli interventi del governo che attualmente pesano sull’economia.

Nessun compromesso sui principi

Dato il nostro accordo su molti obiettivi dei liberali di sinistra e un certo accordo sostanziale su molte questioni, è in effetti curioso che fra i liberali di sinistra ed i libertari spesso ci sia tanta animosità. Sulle libertà civili, la politica estera ed effettivamente alcune questioni economiche, c’è almeno un qualche terreno di intesa. Gran parte della diffidenza reciproca è dovuta a cattiva comunicazione e anche se gli esponenti della sinistra non sono del tutto innocenti in questo, noi libertari dobbiamo fare uno sforzo se vogliamo che le nostre idee si diffondano. Ciò significa mettere in risalto determinati punti e perfino riformulare parte della loro retorica. Possiamo mostrare come la libertà preveda una genuina giustizia sociale. Possiamo fare appello alla tendenza anti-violenta della sinistra pacifista e spiegare come le azioni dello stato sono intrinsecamente violente o come minimo affermate sulla violenza. Possiamo spiegare come il grande governo è un’istituzione per benefici e privilegi corporativi ed esporre quanto questo sia dannoso per chi sta in fondo alla scala economica.
La risposta non è, malgrado ciò che alcuni libertari dicono, compromettere i nostri veri principi o provare ad incontrare i liberali “a metà strada” sulle questioni. Non dobbiamo accettare alcuna funzione degli stati sociali né arrenderci all’idea delle burocrazie enormi per combattere il riscaldamento globale. Alcuni libertari hanno chiesto un’alleanza con la sinistra sottolineando determinate libertà personali e sottovalutando la nostra ferma opposizione alla pianificazione centrale. È ironico che alcuni libertari che sostengono un avvicinamento a sinistra siano essi stessi davvero deboli sulla nostra migliore questione per tale avvicinamento: la politica estera.
I libertari a volte appaiono insensibili e freddi, ma parlando con i liberali di sinistra, è facile rimanere fedeli ai principi mostrando quanto realmente ci preoccupiamo per le vittime dello stato, di molte delle quali la sinistra è informata, ma molte delle quali ha invece dimenticato o non sa che esistono. In questo senso quando affronta questioni che variano dal crimine alla povertà, il libertario può tenere la superiore posizione morale che i liberali di sinistra usano spesso occupare, almeno nelle loro intenzioni, quando comunicano con i conservatori.
Con appena un po’ di sforzo e comprensione, i libertari possono avvicinarsi alla sinistra ed avere enorme influenza su di loro su tutte le questioni: non solo quelle su cui concordiamo più superficialmente, quali la guerra e le libertà civili, ma in effetti anche sull’economia e sulla proprietà privata.

Le questioni

Comunicare ideali libertari a sinistra può essere una sfida, ma può anche contribuire a sostenere la nostra comprensione dei nostri stessi principi. Spesso, i libertari cercano di appellarsi alla sinistra enfatizzando le nostre aree di accordo, che sono viste convenzionalmente come soprattutto riguardanti le libertà personali e la guerra. Ma anche quando discutiamo tali questioni, è importante che mostriamo come le nostre posizioni provengono da un’ideologia coerente e spieghiamo agli esponenti della sinistra come i loro stessi istinti libertari sono in conflitto con quelli dirigisti e collettivisti.

Libertà civili

I liberali classici ed i liberali moderni condividono il rispetto per le libertà civili, ma mentre la posizione libertaria scorre dal principio di auto-proprietà, dai diritti di proprietà e dalla libertà di associazione, la posizione convenzionale della sinistra è spesso contraddittoria con altre posizioni ed a volte anche intrinsecamente.
Effettivamente, il concetto stesso delle libertà civili è incoerente senza una certa concezione dei diritti di proprietà. La libertà di parola non comprende il diritto di gridare oscenità a qualcuno nella sua camera da letto mentre sta cercando di dormire. Nessuno ha il diritto di entrare nella proprietà di qualcun altro per pregare senza il consenso del proprietario. No, la nostra libertà di parlare, religiosa e di fare con i nostri corpi quello che vogliamo è in qualche modo condizionata: è limitata dai diritti della proprietà privata. Ecco perché le questioni riguardanti le perquisizioni e la preghiera nella “scuola pubblica” sono così difficili: non riguardano liberi proprietari, ma il confuso territorio della proprietà pubblica. Questa è un’importante lezione da comunicare alla sinistra.
Nel frattempo, dovremmo mostrare quanto seri siamo sul nostro terreno di intesa. I libertari hanno fatto piuttosto bene nei riguardi della guerra della droga, conducendo il movimento di riforma ed articolando l’idea dell’auto-proprietà sulla questione dell’uso di droga. Alcuni libertari hanno protestato che enfatizziamo troppo tale questione, ma questo non è assolutamente vero. Quando centinaia di migliaia di persone sono state incarcerate e la Dichiarazione dei Diritti devastata, è difficile da esagerarne l’importanza. È inoltre un buon modo per introdurre un liberale di sinistra alla reale depravazione di cui lo stato è capace. Dopo tutto, uno stato che metterà mezzo milione di persone pacifiche in gabbie in cui sopruso e violenza sono endemici forse non è la migliore organizzazione per promuovere un mondo umano e premuroso. Inoltre, un punto può essere fatto circa il paternalismo: un governo abbastanza grande da fornire una sanità ed altre necessità certamente avrà un interesse invasivo nel nostro stile di vita.
Le libertà civili e la giustizia penale, inoltre, sono questioni opportune per la spiegazione dell’essenza della violenza dello stato. Tutto il potere politico nasce dal caricatore di una pistola e quella pistola tende ad essere nelle mani di un poliziotto. I liberali di sinistra spesso diffideranno della polizia e metteranno in discussione la giustizia del sistema carcerario. Lungi dal prendere la posizione conservatrice di difesa di queste istituzioni, dovremmo sfruttare tale scetticismo della sinistra come occasione per spiegare come tutti i programmi governativi sono infine fatti rispettare dalla polizia e dalle prigioni che la sinistra mette in discussione. Se gli esponenti della sinistra sono solidali con gli accusati in cause penali, dovrebbero anche essere meno rapidi a pensare il peggio di chi sia accusato di infrazioni amministrative. Se capiscono le implicazioni delle libertà civili e la futilità pratica del vietare le droghe, dovrebbero vedere i problemi del vietare le armi da fuoco. Se pensano che il sistema è ingiusto per chi è privato dei diritti, dovrebbero essere riluttanti ad applaudire quando gli evasori fiscali vengono imprigionati.
Questa è una grande occasione per provocare una dissonanza cognitiva nell’arredamento mentale della sinistra, che è importante nel tentativo di avvicinare o convertire. Dimostrate come gli stessi valori della sinistra sono in conflitto con alcune delle posizioni che tengono. Chiedete loro come possono davvero sostenere il corrotto dipartimento della giustizia di John Ashcroft quando ha perseguito Martha Stewart, o il Procuratore Distrettuale Rudy Giuliani quando ha perseguito l’investitore di junk-bond Michael Milken. Potreste essere sorpresi di quanti liberali di sinistra ammetteranno di non conoscere in realtà granché sulla questione se precisate gentilmente che alcuni dei loro pregiudizi di sinistra sembrano essere in conflitto con i loro proclamati valori centrali di imparzialità, di adeguato processo e dei diritti civili.

Politica estera

In particolar modo per quanto riguarda le guerre nazionaliste come quelle di Bush, la sinistra tende ad essere migliore della destra sulla politica estera. Questa è un’altra occasione per ulteriore educazione. Perché mai un esponente della sinistra che vede come il suo governo democratico pratica l’assassinio e la tortura all’estero dovrebbe confidare che lo stato sia invece gentile e premuroso nel paese? E, per quei liberali che sono stati morbidi sulle guerre di Clinton, perché possono fidarsi di alcuni politici per bombardare i civili, ma non di altri?
La guerra è davvero l’esempio classico della pianificazione centrale di governo, ed i fallimenti dei tentativi degli Stati Uniti di costruire nazioni all’estero non sono così qualitativamente differenti, o più sorprendenti, dell’incapacità dei programmi interni socialisti di produrre e distribuire le merci ragionevolmente ed efficientemente. Ancora, i politici mentono e distorcono la realtà per promuovere le loro guerre e per esagerare le gravi minacce alla sicurezza pubblica. Se gli esponenti della sinistra possono capire che i politici sono di frequente disonesti ed incompetenti quando si tratta della loro funzione più accettata – proteggere i propri cittadini dall’aggressione straniera – allora forse dovrebbero essere in grado di capire che quei difetti dell’essere umano e quei problemi organizzativi si applicano anche alla politica interna.
Effettivamente, i liberali di sinistra insistono che non è necessario sostenere dittatori stranieri come Saddam Hussein per opporsi all’intervento contro di essi del governo degli Stati Uniti. E riconoscono tipicamente quanto possano essere mostruosi tali dittatori stranieri. I libertari possono far notare che abbiamo la stessa logica per quanto riguarda altri mali domestici, quale l’ingordigia corporativa. Certamente, se la violenza e l’intervento di governo non fossero autorizzati contro un vero dittatore come Saddam Hussein, ci potrebbe essere qualche problema con l’amministrazione della coercizione di governo contro caratteri molto più benigni, come Bill Gates, anche se non ci piace tutto quel che fanno.
Dove la politica estera e l’economia si intersecano, la sinistra è a volte migliore della destra. Molti a sinistra sono stati particolarmente critici degli interventi economici contro Cuba, l’Iraq ed altre nazioni sotto forma di sanzioni commerciali. Questa è una visione libertaria, indipendentemente dal fatto che la riconoscono. Vedono la crudeltà del tagliare qualcuno fuori dallo scambio volontario e commerciale. È un aspetto di vita o di morte per milioni di persone. Questo è un grande punto di partenza per discutere dell’importanza del commercio nel mantenimento della civiltà e della pace. Perché i libertari portano soltanto la loro opposizione alle limitazioni commerciali draconiane al suo estremo logico, avversando tutte le violazioni della libertà di contratto e di scambio volontario, sia internamente che internazionalmente.

Economia

Per qualcuno potrebbe essere una sorpresa, ma i libertari possono realizzare molti progressi comunicando con la sinistra sull’economia. Purtroppo, tale dialogo è spesso controproduttivo. Parte della colpa ricade su quei libertari più attenti ad attaccare la sinistra che a cercare di persauderli.
In primo luogo, è importante non usare gli insulti. Non chiamate sprezzantemente il liberale di sinistra un “commie” – a meno che, naturalmente, vogliate che tutti gli esponenti della sinistra continuino a credere in quel socialismo così distruttivo per la nostra economia. Se mai, incoraggiate una certa dissonanza cognitiva chiedendo perché il vostro amico liberale è così conservatore, difendendo il grande governo, che è una delle idee politiche più vecchie e reazionarie.
Senza impero, stato di polizia e benessere corporativo – tutte cose di cui i liberal sono perlomeno scettici – il governo sarebbero molto, molto più piccolo e le tasse considerevolmente più basse. Durante le grandi guerre, in particolar modo, i conservatori non sono particolarmente migliori dei liberal sull’economia, considerando quanto vogliono tassare (o inflazionare) e spendere all’estero.
Ma il nostro terreno di intesa economico con la sinistra può davvero andare più oltre. Una cosa che la sinistra dovrebbe capire, ma che noi ugualmente abbiamo bisogno di capire se vogliamo spiegarla, è il modo profondo con cui il grande governo in realtà promuove le grandi imprese e calpesta i piccoli imprenditori, i lavoratori a reddito fisso ed i lavoratori poveri. Un libro importante dello storico di sinistra Gabriel Kolko, The Triumph of Conservatism: A Reinterpretation of American History (1963), spiega come i capi corporativi dell’industria spinsero per nuove agenzie regolarici in modo da contribuire a trincerarsi in un mercato regolato ed a distruggere la concorrenza. Questo era inoltre vero durante il New Deal (il direttore della General Electric era strumentale nel disegno dell’infame National Recovery Administration di Roosevelt, per esempio), durante la Great Society ed anche oggi. Spesso, sono gli stessi interessi che sono regolati che beneficiano di più dalla regolazione.
Uno dei più grandi strumenti corporativisti del grande-governo è la banca centrale. Gonfiando la massa monetaria e consegnando i dollari di recente stampa ai propri amici nelle grandi banche, nella grande impresa e nel complesso militar-industriale, il governo ridistribuisce efficacemente i soldi dalle classi povere e media a determinati segmenti di quella ricca, che ottengono i soldi per primi, prima che i prezzi possano adeguarsi. Quando infine arrivano alla gente più in basso sulla scala economica, i prezzi sono saliti. L’inflazione è quindi una tassa indiretta e regressiva .
Ci sono altri plateali modi in cui la grande impresa beneficia del grande governo. L’eminent domain è stato sempre più usato per sequestrare proprietà private e attività commerciali e per darne la proprietà ai grandi magazzini come Costco. Gli enti locali ottengono più reddito di imposta e le aziende più profitti – di nuovo illustrando il collegamento fra potere di governo e privilegio corporativo. Le leggi del salario minimo ed altre regolazioni tendono ad avvantaggiare le imprese più grandi, ed è per questo che tali giganti corporativi come il CEO di Wal-Mart spesso li favoriscono. Il programma di Bush della prescrizione medica, la più grande espansione nelle prestazioni sociali dalla Great Society, si è rivelato un’esplosione di welfare corporativo per l’industria farmaceutica.

Ambiente ed educazione

Per quanto riguarda l’ambiente, i diritti di proprietà e la common law erano più rigorosi contro l’inquinamento dei nuovi enti competenti favoriti dalla grande impresa, fin dalla Rivoluzione Industriale, come sistema per socializzare i costi dell’inquinamento, tutto in nome del “bene comune.” Inoltre, molte imprese sono saltate sul carro del riscaldamento globale, riconoscendo che la regolazione delle emissioni di carbonio può essere enormemente vantaggiosa per le grandi imprese sotto forma di sovvenzioni e di contratti di licenza di brevetti.
Anche la pubblica istruzione è potenzialmente un terreno di conquista con la sinistra, una volta che esponete la storia delle “scuole pubbliche” come strumenti della propaganda e del lavaggio del cervello nazionalista e delle fabbriche per la produzione di operai, cittadini, soldati e contribuenti leali. Questa è un’altra area dove il libertarismo moderato è spesso disorientato. Idee riformiste quali i buoni scuola – che potrebbero offrire efficacemente maggiore scelta ad alcuni genitori non facendo però niente per tagliare il governo ed effettivamente aumentando l’intervento del governo nel settore della scuola privata – sono spesso più offensive per la sinistra dell’idea radicale di separare la scuola interamente dallo stato, come facciamo con la religione e per molti degli stessi motivi.

Privatizzazione e mercati liberi

Una trappola simile si trova nel sostegno della privatizzazione di istituzioni quali la previdenza sociale, le prigioni e la guerra.
La previdenza sociale è un programma socialista di ridistribuzione che conta inevitabilmente sulla coercizione; quindi non c’è niente da privatizzare. La miglior cosa sarebbe di ridurre in fretta la spesa, fino a che non rimanesse alcun programma, anche per liberare gli odierni contribuenti dal peso delle tasse il più rapidamente possibile. Poiché la previdenza sociale è una tassa regressiva, i liberali di sinistra sono a volte più aperti ad una posizione di principio che agli schemi per “privatizzare” il programma promulgando programmi obbligatori di risparmio, stabilendo sovvenzioni de facto per Wall Street, il tutto socializzando parte del mercato azionario.
L’ironia è che tali riforme apparentemente a metà strada non solo spesso non riescono ad avvicinarci alla libertà; incontrano anche una particolare resistenza a sinistra, che è particolarmente scettica di qualsiasi programma per passare la democrazia sociale agli interessi corporativi.
Per quanto riguarda cose come le prigioni e la guerra, neanche qui dovremmo spingere per privatizzarle. Un’associazione fra l’impresa ed il governo non è libertaria – effettivamente, è per definizione un attributo del fascismo – e il fatto che potrebbe svolgere il suo lavoro più efficientemente non significa che dovremmo favorirla. Alcuni programmi governativi sono immorali e quindi non vogliamo vederli eseguiti più efficientemente.
Il vero libero mercato offre la reale liberazione per tutto. La decentralizzazione radicale del potere che accompagna i robusti diritti di proprietà significa più uguaglianza e libertà per gli operai e meno privilegi e protezione per l’elite corporativa. Significa una possibilità di lotta per i deboli. Non dovremmo mai mancare di sottolinearlo.
Spesso, è l’incoerenza o la mancanza di chiarezza che rende spaventoso per la sinistra il pensiero libertario. Dovremmo in particolar modo stare attenti a non essere ipocriti. Sì, dovremmo elogiare le glorie dei padri fondatori – ma non fingere che la sinistra non abbia qualche ragione sulle origini del governo americano come stato espansionista e aggressivamente schiavista. Sì, dovremmo sostenere i mercati liberi – ma non dare un passaggio a politici come Ronald Reagan, la cui retorica era sovente buona ma le cui politiche erano spesso orribili per la libertà.
Dappertutto, una chiave mostra all’esponente della sinistra i suoi errori evidenti. Confrontate l’attivista non violento con la violenza inerente al controllo delle armi. Confrontate coloro che sostengono di parlare per i poveri con la natura regressiva della previdenza sociale e del grande governo.
Anche se siete in disaccordo con me su quanto ricettiva la sinistra possa essere al libertarismo, non abbiamo altra scelta che impegnarli su queste questioni. Se vogliamo promuovere la causa della libertà, dobbiamo convincere sempre più gente delle sue virtù. Molte persone stanno nella sinistra politica, e tali persone tendono ad interessarsi all’attivismo ed alle idee ed è particolarmente importante per la causa della libertà quando infine si avvicinano ed abbracciano il coerente programma dei libertari. Ignorarli non è un’opzione e sminuirli è un lusso che non possiamo permetterci. Noi dobbiamo invece avvicinarli, mostrando a quelli più ricettivi alle nostre idee che la libertà porta giustizia sociale, la proprietà privata porta la liberazione e la libera impresa è il sistema economico più compatibile con un mondo pacifico.

Articolo da: http://www.movimentolibertario.it/home.php?fn_mode=fullnews&fn_id=93&fn_cid=4