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Posts Tagged ‘Luigi Corvaglia’

Conversazione di Salvatore Antonaci con Luigi Corvaglia

agosto 18, 2010 2 commenti

Conversazione di Salvatore Antonaci con Luigi Corvaglia, saggista, teorico del libertarismo, domande anche da Domenico Letizia e Michele Gambella

http://www.tvradicale.it/node/133

Capitalismo Pensante

Massoneria e Anarchismo


di Luigi Corvaglia

Un po’ di chiarezza per sgomberare il campo da due contrapposti miti, quello della filiazione del movimento anarchico dalla Massoneria (diffuso dal tradizionalismo cattolico e da Forza Nuova), e quello della assoluta incompatibilità fra movimento anarchico e libera muratoria (diffuso fra gli anarchici meno consapevoli della storia).

“L’8 gennaio 1847, venni accolto come Massone, col grado di apprendista, nella Loggia Sincerità, Perfetta Unione e Costante Amicizia, ‘Oriente di Besançon’. Come ogni neofita, prima di ricevere la Luce, dovetti rispondere a tre quesiti d’uso: Cosa deve l’uomo ai suoi simili? Cosa deve alla sua patria? Leggi tutto…

La risposta di Corvaglia

La risposta di Corvaglia al mio articolo: http://www.movimentolibertario.it/index.php?option=com_content&view=article&id=3578:aprire-alla-sinistra-libertaria&catid=1:latest-news#yvComment3578 )

Ho visto l’intervento di Domenico, ed ho pensato,dopo una fugace (fugacissima) scorsa al dibattito, di affiancare il buon Domenico nella sua provocazione, perché mi sembra che ci sia una confusione dei piani del discorso. Guardare a sinistra non vuol dire affiancarsi agli statalisti. Fu Rothbard in persona e cravattino che, rifacendosi agli schemi destra-sinistra originari, cioè quelli della rivoluzione francese, affermò di ritenersi addirittura di “estrema sinistra”. Tale affermazione fece, non solo chiacchierando col comune amico Riccardo La Conca che me lo confidava qualche anno fa (solo due gradi di separazione fra me e Rothbard?..wow!),ma perfino scrivendolo a chiarissime lettere in “Left and Right: the Prospects for Liberty”, un saggio contenuto in “Egalitarianism as a Revolt Against Nature and other essays”. Se nel primo caso poteva essere alticcio, nel secondo credo che Murray fosse cosciente di ciò che diceva. In quel saggio Rothbard affermava che il conservatorismo,cioè la destra, è il nemico e l’antitesi diametrale del libertarismo. Mica solo questo. Diceva anche che il socialismo (“a confused, centrist movement”) è il centro, perché mescola lo statalismo della destra con istanze di liberazione “sinistre”; pertanto, se sinistra vuol dire emancipazione,lotta al potere ed alle autorità, il libertarismo,opposto allo statalismo dell’ancien regime, è la sinistra. Questo diceva il fondatore del “paleolibertarismo”. Che poi la sinistra abbia abbracciato lo statalismo è solo indice della sua degradazione. Inoltre, il libertarismo è, secondo il Rothbard di Left and Right, un movimento radicale, estremista che ha riportato nell’area liberale (latu sensu) il testimone del radicalismo. Secondo Rothbard, infatti, il radicalismo, nel senso di opposizione imperterrita all’autorità e al potere, era stato abbandonato dal liberalismo, in seguito alla sua corruzione da parte della filosofia utilitarista, e sequestrato impropriamente da parte del socialismo, che si era impropriamente – e ripeto impropriamente – posto come sinistra. Ora, pur non condividendo completamente il discorso rothbardiano sull’utilitarismo, concordo in toto sulla carica radicale dell’idea libertaria, un’idea che non può vedersi limitata all’asfittica, per quanto sacrosanta, lotta antifiscale. Così finisce per atrofizzarsi e rischia di rivolgersi contro se stessa, come la sinistra.

Di laicità cosmetica e arredamento d’interni


di Luigi Corvaglia

Sia ben chiaro: se mi vietano gli spaghetti, faccio le barricate. Gli italiani, brava gente, nello spaghetto si riconoscono. Gli spaghetti, la pizza, la mamma, la nazionale. Abbiamo i nostri totem, i nostri simboli, le nostre griffes. L’appartenenza si fonda sul carboidrato alla pummarola e sulle mamme che ad esso ci iniziarono. E poi c’è il crocefisso. Trattasi di un complemento d’arredo costituito da una salma lignea o, sempre più spesso, in materiale plastico che raffigura, si sa, un uomo morto dopo tortura e che campeggia, generalmente ignorata dai più, in ogni dove. Ma non vuoi che ce lo vogliono togliere? Si, l’Europa, quella che decide il diametro dei piselli e la curvatura delle banane, lo ha decretato con una sentenza della Corte di Strasburgo. La folcloristica affissione del manufatto nei luoghi pubblici, responsabile dei risolini di scherno di tanti visitatori protestanti, più adusi al concetto di laicità e meno afflitti da iconolatria, è vietata perché incompatibile col rispetto delle opinioni di tutti. Che questo fatto sia banalmente vero rende il senso del mio stupore nel considerare che per definirlo sia dovuto intervenire un tribunale e, ancor di più, che da destra e da sinistra, da sopra e da sotto, si sia levata la protesta di teo-demo e psudo-laic. Onestamente, non riesco a scaldarmi. “Certo”, dirà il lettore, “tu sei laico. Vorrei vedere ti levassero gli spaghetti. Chissà come gongoli”. Si, è vero, sono laico, ma non gongolo. Il fatto è che una cosa sono gli spaghetti e un’altra la loro icona. I primi sono fumanti, conditi e tolgono l’appetito, la seconda è una rappresentazione simbolica. Per questa non farei alcuna barricata. Teo-dem e pseud-laic, invece, insorgono a difesa dell’effige.
Si, insomma, il lettore ha ragione, considero il concetto giusto, oserei dire “sacrosanto”, se non fosse contraddittorio. Un’istituzione sovra personale, lo Stato, rappresentante e tutore di tutti, impone simboli solo di alcuni. Laico e libertario, mi dicono i miei amici transazionali, liberali, liberisti e ibertari, così come i miei consociati agnostici e razionalisti, dovrei gioire della sentenza. Non gioisco. Non gongolo. Ghigno un po’, lo ammetto. Due i motivi. Innanzitutto, se non mi piace un’istituzione sovra personale che obbliga tutti suoi “cittadini” alla esposizione del crocefisso, diffido di un istituto sovra-statale, anche se mi ha regalato un attimo di illusione. Domani potrebbe farmi urlare di dolore. Potrebbero impormi – sacrilegio! – gli spaghetti di grano tenero, ad esempio. Summa lex, summa iniuria. Già, ma ora ammetto di ghignare allo spettacolo del teatro delle vergini violate intorno a me. Gli italiani, brava gente, si scandalizzano; i nostri ministri, bravissima gente, si mobilitano contro l’oscena sentenza. E si, dicono, sarà vero che siamo ai primi posti al mondo per consumo di cocaina (ma non abbiamo rivali nell’accoppiata fra questa e i trans), che la mafia prospera, la corruzione metastatizza il paese, però, in fondo, sapete che siamo? Brava gente, sempre pronta a una manifestazione in favore della famiglia o per una ronda. Purché si stia insieme in allegria. Gioviali e conviviali sempre, gli italiani. Ma soprattutto cristiani. Da cosa si deduce l’intima cristianità degli italiani? Ma dall’onnipresenza di salme lignee. Da cosa altrimenti? Da diffuso spirito cristiano non direi. Così, il ripristino del povero Cristo sul muro a guardare sconsolato lo stato della scuola e dei tribunali italiani non rappresenterebbe certo la vittoria dello spirito del nazareno, come l’averlo tolto non rappresenta alcuna vittoria della laicità. E questo è il secondo motivo di mancato gongolamento. E’ solo laico-cosmesi. Lo sapete che lo stato italiano versa ogni anno alla chiesa cattolica 700 milioni (700.000.000) di euro? Non mi venissero a parlare di laicità! Lascino l’arredo crucifero e ci ridiano i soldi, piuttosto.

http://disgusto.ilcannocchiale.it/

Analisi e Proudhon

Da: http://www.anarca-bolo.ch/a-rivista/ ( A rivista Anarchica).

Il pensiero proudhoniano è stato oggetto di molteplici interpretazioni, le più diverse, le più disparate. Stroncato dai marxisti come piccolo-borghese, salutato dalla destra francese come teorico dell’autorità familiare, riconosciuto dai “socialisti liberali” come loro precursore, identificato dal sindacalismo rivoluzionario come nume tutelare e intellettuale di Sorel, riscoperto dal socialismo consiliare come iniziatore dell’autogestione operaia, infine, criticato, discusso e rispettato come uno dei fondatori del pensiero anarchico.
Alla radice di questa varietà interpretativa vi è il pensiero stesso di Proudhon, continuamente contraddittorio, dispersivo, costruito più per spunti ed intuizioni, che per schemi. La matrice di questa contraddittorietà è data dall’uso assolutamente originale del metodo dialettico: a differenza di Marx ed Hegel che definiscono la realtà nella forma triadica di una tesi e di una antitesi che si risolve sempre in una sintesi superiore, Proudhon afferma che le opposizioni e le antinomie sono la struttura stessa del “sociale”, e che il problema non sta nel risolverle in una sintesi che finirebbe per irrigidire la realtà, ma nel trovare e nel costruire un equilibrio funzionale capace di far convivere più tendenze di per sé contraddittorie.
Le opposizioni tra ordine stabilito e progresso, tra proprietà privata e proprietà collettiva, tra socializzazione e individualismo, fanno tutte parte del tessuto della vita sociale. I contenuti specifici della sua dottrina, privilegiando di volta in volta aspetti diversi della molteplicità socio-economica, possono definire Proudhon come teorico ora all’una ora all’altra tendenza, rendendo praticamente impossibile una “lettura anarchica” del suo pensiero. Quest’ultimo, inoltre, ha subito un’evoluzione continua caratterizzata da alcune fasi più inclini al democraticismo rivoluzionario o al riformismo che all’anarchismo.
Tuttavia vi è nell’opera complessiva di Proudhon un metodo d’indagine e di analisi, un modo di accostarsi e di interpretare la realtà sociale ampiamente libertario; metodo che porta alla duplice costituzione teorica di due fondamenti principali del pensiero anarchico: il pluralismo e l’autogestione. Essi costituiscono non solo una caratteristica propria dell’anarchismo storico ma anche dell’anarchismo contemporaneo, permettendoci una doppia giustificazione di una “lettura anarchica” di Proudhon: allo stesso tempo ideologica ed attuale.

L’analisi:

Dissonanze.
Quel democratico di Proudhon
di Luigi Corvaglia

Il concetto di “dissonanza cognitiva” è noto da tempo agli psicologi. Quando concetti, nozioni e credenze vissute come incoerenti o opposte sono contemporaneamente presenti nell’apparato cognitivo di un individuo, si viene a creare un disagio psicologico che necessita di esser risolto. Un esempio noto è quello del fumatore. Egli sa che fumare fa male, sa al contempo che chi fa qualcosa che lo danneggia è stupido, pertanto il tabagista dovrebbe accettare l’idea di essere stupido; questa idea, però, contrasta con la benevola autoconsiderazione che è di ogni individuo non depresso. La soluzione può essere, allora, quella di squalificare la scientificità degli studi sui danni da fumo, oppure il considerare il piacere sicuro prodotto dal suo vizio più importante di un danno incerto, come anche l’ affermare a se stessi che, “con l’inquinamento che c’è”, il fumo di sigaretta è piccola e trascurabile cosa. Tutto pur di salvaguardare la propria immagine di individuo razionale. Bene, alla dissonanza cognitiva e alle contorsioni intellettuali messe in campo per risolverla non è immune neppure il pensatore di cose politiche, l’analizzatore di grandi sistemi e neanche i tanti, troppi autori di “brevi saggi sull’universo”. Anzi. Si prendano gli anarchici, noti compendiatori di universi, tra l’altro, e il loro rapporto con il libero scambio. E’ noto che se sei per il libero scambio sei un capitalista, c’è scritto su tutti i brevi saggi. Libero scambio e anarchismo sono “dissonanti”, non possono coesistere nella stessa scatola cranica, specie se già occupata da molti altri ingombri intellettuali, quali, per esempio, quelli che fanno confondere il libero scambio col capitalismo, un sistema predatorio che nulla ha a che vedere con uno scambio realmente “libero”. Stranamente, però, anarchismo, che è per definizione libertà, e impedimento dello scambio, che è costrizione, sembrano non essere particolarmente dissonanti. Ora, intendo sottoporre al lettore un caso piuttosto lampante di risoluzione di una dissonanza cognitiva di tipo simile. L’argomento è Proudhon.
Per una strana coincidenza, sull’ultimo numero di “A Rivista Anarchica” (n. 348, novembre 2009), Mirko Roberti sembra quasi rispondere al mio invito(http://tarantula.ilcannocchiale.it/?r=19435), pubblicato su vari fogli e noto anche a quella redazione, a leggere Proudhon. Egli, infatti, si produce in una singolare argomentazione proprio proponendo una “Lettura di Pierre Joseph Proudhon”. Nell’introdurre alcuni brani del francese, estrapolati qua e là, l’autore parte dalla constatazione che “Il pensiero proudhoniano è stato oggetto di molteplici interpretazioni, le più diverse, le più disparate.” Ciò è senz’altro vero e, del resto, era proprio tale constatazione a motivare la mia proposta di approfondimento dell’opera proudhoniana. Tale approfondimento, in altri termini, avrebbe dovuto far cogliere al lettore la profonda coerenza interna del suo pensiero, onde far miseramente crollare una serie di luoghi comuni di pronto utilizzo, appunto, per le più diverse e contrastanti posizioni. Già, ma l’invito del più noto magazine libertario italiano sembra procedere in vista di ben altro fine. Si, perché Roberti scrive che “Alla radice di questa varietà interpretativa vi è il pensiero stesso di Proudhon, continuamente contraddittorio, dispersivo, costruito più per spunti ed intuizioni, che per schemi”. La posizione di Roberti è rispettabile come quella di qualunque studioso e, in un dibattito intellettuale, la differente interpretazione è per definizione una necessità, pena l’assenza del dibattito stesso. Senonché, ad un certo punto diventa piuttosto chiaro che l’autore tende a risolvere il disagio psicologico che proprio la lettura dell’autore di “Che cos’è la proprietà?” procura al suo anarchismo. Proudhon, con la sua ostinazione a non sclerotizzare le posizioni in dogmi e a considerare mobile ogni cosa viva, a vedere, cioè, come necessarie ed ineliminabili perfino le “contrapposizioni e le antinomie”, incluse quelle “tra proprietà privata e proprietà collettiva, tra socializzazione e individualismo”, perché “fanno tutte parte del tessuto della vita sociale”, provoca qualche vertigine. Manca un saldo parapetto. Ecco allora che avviene l’impensabile: l’uomo che per primo osò definirsi “anarchico” viene espulso dal novero degli anarchici! Scrive, infatti, Roberti: “I contenuti specifici della sua dottrina, privilegiando di volta in volta aspetti diversi della molteplicità socio-economica, possono definire Proudhon come teorico ora all’una ora all’altra tendenza, rendendo praticamente impossibile una “lettura anarchica” del suo pensiero. Quest’ultimo, inoltre, ha subito un’evoluzione continua caratterizzata da alcune fasi più inclini al democraticismo rivoluzionario o al riformismo che all’anarchismo.”
Uno scoop, direi, che non solo finisce con l’ accreditare le letture fantasiose da cui si era partiti, ma che, nel cercare di risolvere una serie di dissonanze cognitive con l’espulsione di tanto autore dall’esclusivo club, finisce col rivelare un pericoloso sfondo intellettuale. Infatti, il motivo della scarsa coerenza anarchica dell’ uomo di Becancon Roberti la vede nell’ “’uso assolutamente originale del metodo dialettico: a differenza di Marx ed Hegel che definiscono la realtà nella forma triadica di una tesi e di una antitesi che si risolve sempre in una sintesi superiore, Proudhon afferma che le opposizioni e le antinomie sono la struttura stessa del “sociale”, e che il problema non sta nel risolverle in una sintesi che finirebbe per irrigidire la realtà, ma nel trovare e nel costruire un equilibrio funzionale capace di far convivere più tendenze di per sé contraddittorie.”In altri termini, sembra che la colpa del fondatore dell’anarchismo moderno sia quella di considerare l’identità anarchica come qualcosa di anarchico. Ecco, questo non è dissonante….

Proprietà e mercato fra Archè e Anarchè

Nasce il Centro Studi Libertari Claustrofobia per ‘rifondare’ l’anarchismo

Maggio 24, 2009 7 commenti


Di Domenico Letizia

Ecco ci siamo, alla presentazione di questo nuovo progetto: il Centro Studi Libertari Claustrofobia, che trovate all’indirizzo: http://www.claustrofobia.org/
Claustrofobia è un centro che si ripropone di analizzare o di ricanalizzare il pensiero anarchico e libertario in un ottica originaria, individualista, liberale o semplicemente pura: si tratta di riconoscere nei fondamentali della “civiltà liberale” gli elementi base per la demolizione della cultura degli assoluti categorici. Base della nostra proposta è, quindi, l´autodeterminazione dell´individuo in ogni campo, sia pure non in una visione solipsistica, ma tale da sottolineare le reciproche interdipendenze, accettando alcuni spunti sia dell’anarcocapitalismo che del pensiero anarchico classico. Ci si ritrova a studiare una società statale e a cercar ipotesi di società senza stato, tutto basato su documentazione ed analisi.
Claustrofobia prende il nome della rivista Claustrofobia cinque numeri usciti alla fine degli anni ’70, frutto dell’opera solitaria di Riccardo La Conca, e rifacendoci un po’ allo scalpore che una simile rivista produsse in quei anni, Claustrofobia vuole inserirsi come una voce all’interno dell’anarchismo, analizzarlo e praticarlo.
Ecco cosa troviamo sul sito, alla voce ‘Chi siamo’: Claustrofobia.org nasce da un’alleanza tra libertari possibilisti liberoscambisti, si propone di creare un luogo di studio e di azione politica riunendo e conciliando, pur mantenendo le dovute differenze, anarcosindacalisti, mutualisti, agoristi e anarcoliberali rifacendosi all’individualismo anarchico e al liberalismo delle origini, alla tradizione dell’autosufficienza, delle comunità locali, del volontarismo federativo e della decentralizzazione, si propone di creare una struttura economica nuova, decentralizzata e autonoma, invitando i lavoratori a ritirarsi in una struttura economica non politicizzata dalle logiche statali, costruire la società giusta nel guscio di quella vecchia. Siamo uniti in un’opposizione allo Stato, al militarismo e all’intolleranza culturale (discriminazione sessuale, razzismo) basando la nostra strategia per la liberazione creando movimento e istituzioni alternative e rifiutando la politica elettorale.
E’ nato, ringrazio tutti dal gentilissimo creatore del sito al dott. Luigi Corvaglia tra i fondatori del nostro Centro. Ora oltre D. Letizia, D. Fidone, e speriamo presto anche F. Massimo Nicosia e lo stesso Riccardo La Conca, rivolgo l’invito a partecipare con critiche, proposte e analisi tutto il mondo anarchico e libertarian, personalmente spero anche in una partecipazione di Pietro Adamo, Nico Berti e nell’aiuto di alcune grandi riviste del libertarismo Italiano. Ma soprattutto spero nella partecipazione di tutti coloro che si sentono libertari, i presupposti per iniziare ci sono già: Iniziamo.

Te lo do io Proudhon (2)

La proprietà non è un diritto naturale

di LuigiCorvaglia

II parte

Figli del secolo dei lumi, liberalismo, socialismo ed anarchismo sono fratelli bastardi. Sono infatti nati dalla assidua frequentazione della dea Ragione con gli elementi della triade rivoluzionaria “Libertà, Eguaglianza e Fraternità”. E’ la secolarizzazione, infatti, che permette di ripensare l’idea dell’ordine immutabile delle cose, è la caduta dell’ancien regime che dà vigore alla cognizione che l’arrangiamento degli individui possa essere costruito dagli uomini secondo principi liberamente scelti e non imposti. I tre elementi che furono il motto del 1789, però, sono in equilibrio instabile. Questo perché l’ordine lessicale, per utilizzare la definizione che sarà di John Rawls, cioè la graduatoria della loro prescindibilità in un ideale “gioco della torre”, può essere molto diverso. Il socialismo ha privilegiato l’eguaglianza, anche a costo di rimetterci in libertà, qualora fosse costretto ad una scelta. Il liberalismo, invece, presenta un ordinamento inverso, premettendo la libertà individuale ad ogni altro fine, inclusa quindi l’eguaglianza. La fratellanza, terzo elemento della triade, risulta in un compendio delle prime due e non può darsi senza una composizione, un equilibrio. Bene, l’anarchismo mira a dare pari dignità alla diade libertà-uguaglianza. Michail Bakunin scrisse: “ la libertà senza il socialismo porta al privilegio, all’ingiustizia; e il socialismo senza libertà porta alla schiavitù e alla brutalità”. Bisogna ammettere che fra tante profezie politiche e “sol dell’avvenire” di cui XIX e XX secolo sono stati infestati, l’unica ad essersi inverata è questa del rivoluzionario russo. In realtà, però, anche l’anarchismo ha spesso sofferto di sbandamenti verso l’uno o l’altro polo. Lo stesso Bakunin, ad esempio, ha teorizzato un collettivismo che è l’ultima fermata del treno libertario prima del capolinea anarco-comunista di Kropotkin. Inverso il discorso per l’individualismo americano di Warren, Tucker e Spooner, teorici di un “liberalismo” radicale. Solo Proudhon, fra i giganti del dell’anarchismo classico, sembra riuscire nel difficile compito di mantenere un equilibrio, instabile come ogni cosa viva, fra i due estremi (e in ciò è, probabilmente, da ricercare il motivo delle accuse provenienti dai contrapposti fronti di situarsi nella trincea opposta). Ciononostante, non trova spazio nella teorizzazione del tipografo di Becancon alcuna utopica idea di fine della storia, alcun sogno di composizione totale della frattura fra le antinomie. L’esperienza umana, egli ci ricorda, è intessuta di contraddizioni e l’idea di una soluzione unica e definitiva che porti alla stasi, cioè alla morte, ciò che è vivo e dinamico non può che risolversi in un fallimento o nell’arbitrio del potere. Questo è forse il motivo dello scarso appeal che questo pensatore ha presso gli apostoli della palingenesi insurrezionalista. Lasciamo la parola allo stesso Proudhon:

I poli opposti di una pila elettrica non si distruggono. Il problema consiste nel trovare non la loro fusione, che sarebbe la loro morte, ma il loro equilibrio incessantemente instabile, variabile a seconda dello sviluppo della società.
(da Teoria della proprietà)

La stessa uguaglianza, per Proudhon, è ben lontana dal risolversi nella piattezza del livellamento che soffochi le individualità, “non è affatto una condizione fissa, ma la media algebrica di una situazione sempre mobile”.
Le antinomie sono irrisolvibili. Inclusa quella fra libertà ed uguaglianza. E allora? Allora, il terzo elemento della triade, la fratellanza non può che risolversi in un dinamico sistema che, accogliendo l’uno e l’altro elemento della diade, sia radicato nella Giustizia:

Scartate l’ipotesi comunista e l’ipotesi individualistica, la prima in quanto distruttrice della personalità, la seconda in quanto chimerica, non resta da prenderne in esame che un’ultima sulla quale del resto la moltitudine dei popoli e la maggioranza dei legislatori sono d’accordo: quella della giustizia. (da La Giustizia nella rivoluzione e nella Chiesa)

Ecco. Giustizia. Questo concetto è fondamentale in Proudhon e l’accezione nella quale egli la considera merita una spiegazione. Proudhon è giusnaturalista. Egli, cioè, è convinto dell’esistenza di indiscutibili norme di diritto naturale. Così il suo concetto di giustizia, come è stato criticamente notato, è quello di un dato immanente e quasi metafisico da scoprirsi con l’uso della Ragione, non da costruirsi storicamente. Ciò ne fa, nel bene e nel male, un chiaro figlio del suo tempo. La giustizia è, la Giustizia, indipendentemente dalla legge, la quale può essere conforme o meno ad essa, è unica e data. Non, però, come qualcosa di esterno e superiore all’uomo, bensì di immanente (“è in noi come l’amore, come le nozioni del bello (…) La giustizia è umana, del tutto umana, nient’altro che umana”, ibidem). Bene, proprio illuminati da questo faro, tanto l’individualismo quanto il socialismo gettano ombre deformi che feriscono il senso del giusto. La cosa qui assume estrema importanza. Ciò perché il richiamo al “diritto naturale” è tradizionalmente la base delle teorizzazioni che, partendo dalla fonte di Locke e scendendo per li rami fino allo stagno di certo sedicente liberismo radicale, vedono la giustizia nel rispetto di diritti “auto-evidenti” quali la proprietà. Eppure, per Proudhon la proprietà è un furto. E’proprio il suo essere un giusnaturalista, quindi, che permette a Proudhon di scardinare la cassaforte ideale dei proprietari. Egli, cioè, si muove sullo stesso terreno di coloro che intende criticare, risultando pertanto particolarmente efficace nel marcare le contraddizioni nel discorso di chi, partendo dalle stesse premesse, intendeva – e intende – giustificare la proprietà quale diritto naturale. Vediamo come. Innanzitutto, egli nota che, presentandosi quale diritto “solo in potenza, come una facoltà inattiva e fuori servizio”, viene meno il criterio di universalità che caratterizza necessariamente i diritti naturali. Sarebbe grottesco affermare che “tutti gli uomini hanno un diritto eguale a proprietà ineguali”. I diritti, infatti, sono “inalienabili” per definizione e non suscettibili di crescite e diminuzioni. Soprattutto, però, avendo la Dichiarazione dei diritti individuato i quattro diritti imprescrittibili dell’uomo in quelli alla libertà, all’uguaglianza, alla sicurezza ed alla proprietà, Proudhon nota un elemento stonato in questo quartetto. Se realmente realizzati e rispettati, infatti, i diritti alla libertà, all’uguaglianza e alla sicurezza si completano a vicenda e portano alla concordia sociale. Armonizzano. Non funziona così per la proprietà. Scrive :

La libertà e la sicurezza del ricco non soffrono della libertà e della sicurezza del povero: anzi, possono rafforzarsi e sostenersi scambievolmente: al contrario, il diritto di proprietà del primo deve essere continuamente difeso contro l’istinto di proprietà del secondo. (…) Così il ricco ed il povero sono in uno stato di diffidenza e di guerra reciproca! Ma perché si combattono? Per la proprietà; dunque la proprietà comporta necessariamente la guerra alla proprietà!
(da Che cos’è la proprietà?)

Se, in altri termini, gli altri tre diritti portano all’avvicinamento, all’unione, alla socialità, la proprietà si palesa quale diritto antisociale, dotato di una forte carica disgregante. Non è quindi su tali basi che può considerarsi un diritto “naturale”. Su quali allora? I giusnaturalisti hanno ancora due carte, quella del “lavoro” e quella dell’ “occupazione”. Partiamo da quest’ultima. E’ idea ben nota agli anarcocapitalisti, che rivendicano il naturale diritto all’occupazione della “terra” – intesa latamente come qualunque mezzo di produzione che non sia già in mano ad altri. Qui Proudhon riprende un discorso di Cicerone:

Il teatro, dice Cicerone, è comune a tutti; e tuttavia il posto che ciascuno vi occupa è detto suo; nel senso che è da lui posseduto, non che è di sua proprietà. Questo paragone annienta la proprietà; esso implica inoltre l’eguaglianza. Posso forse in teatro occupare simultaneamente un posto in platea, un altro nei palchi ed un terzo in galleria? (…) Secondo questo paragone, ciascuno può sistemarsi come preferisce nel suo posto, può abbellirlo e migliorarlo: ma la sua attività non deve mai superare il limite che lo separa dagli altri”

(da Che cos’è la proprietà?)

In altri termini, se ogni uomo ha eguali diritti di lavorare e produrre, è ovvio che debba godere anche del diritto di occupare la terra, i mezzi di produzione. Da ciò non discende affatto la proprietà dei mezzi, ma solo il loro usufrutto. Ciò per un concetto tanto logico quanto semplice. Se nel teatro di Cicerone entrano altre cento persone, chi già vi si trovava ad usufruire degli spazi, si stringerà per far posto ai nuovi arrivati. Toglierà cappelli e cappotti dai sedili vicini, ad esempio. Ciò vuol dire che il diritto di occupazione è variabile. Insomma, “poiché la misura dell’occupazione dipende dalle condizioni variabili dello spazio e del numero, la proprietà non può costituirsi” (ibidem).
Ora i vari lettori che si imbattono nella definizione della libertà come furto non dovrebbero più incorrere nell’errore che fu anche di Marx e di Stirner, quello di cogliervi, secondo il noto luogo comune, una contraddizione (“come si può rubare se non c’è proprietà?”) . Il furto è nel fatto che chi si considera proprietario si appropria, sottraendolo definitivamente a tutti gli altri, di un bene a cui tutti hanno uguale diritto d’usufrutto.
Arriviamo ora all’argomento principe, il pilastro della teoria della proprietà. E’ quello del “lavoro”. L’idea lockiana del mescolamento del proprio lavoro alla terra fondandone la proprietà. Il proprietario ha migliorato la terra e ha creato il prodotto. “Ma chi ha creato la terra? Dio. In questo caso proprietario ritirati”, scrive Proudhon. Se è innegabile che chi produce qualcosa ha il diritto di possedere tale prodotto ( possesso), di certo non può vantare diritti sullo strumento che non ha creato (proprietà). “Il pescatore”, continua il francese, “che, sullo stesso litorale, è capace di prendere più pesci degli altri diventa forse, per questa sua abilità, proprietario dei paraggi della pesca?” (Che cos’è la proprietà?) .
Ebbene, a dimostrazione del fatto che la lettura di Proudhon non si limita alla mera e sterile ricerca dello storico, c’è proprio l’attualità della questione del lavoro che è da sempre uno degli ambiti più molli del fianco del liberismo estremo, ad esempio del cosiddetto “anarcocapitalismo”. Si è, infatti, molto discusso sulla vaghezza del concetto di lavoro. Sembra che a Murray Rothbard, principale teorico dell’anarcocapitalismo, basti il lavoro di recintare un terreno per renderlo di sua proprietà. In realtà, a voler seguire la lettera della teoria, questo lavoro potrebbe comportare al massimo la proprietà della sola striscia posta al di sotto della recinzione. Seguendo questo discorso, dando per scontato che nulla in una recinzione migliora un luogo, e che quindi la sola azione permetterebbe di sancire una proprietà, anche urinare in mare dovrebbe rendere padroni di un certo tratto di costa. Produrre onde radio rende padrone dell’atmosfera? Quelli che paiono giochetti logici ed elucubrazioni da ossessivi, invece, sono argomento di dibattito nel mondo dell’individualismo libertario che alcuni porrebbero a “destra” dello scenario politico. Comunque, pur presupponendo che sia possibile definire cosa sia lavoro e cosa no e perfino accettando che ogni lavoro comporti un miglioramento, cosa oggettivamente definisce il “miglioramento” nello stato della “terra” rispetto alla condizione precedente? Produrre onde radio migliora o peggiora l’atmosfera? Il miglioramento percepito da alcuni fruitori della “terra” in che modo comporta la necessaria accettazione della proprietà da parte di quanti gli usufruttuari che non ritengono che detto lavoro abbia comportato un miglioramento? Questi sofismi, pur nei loro tratti caricaturali, evidenziano la vaghezza dei criteri in merito. Come non bastasse, procedendo ancora ad un ragionamento per assurdo che dia per scontata la logica dell’appropriazione tramite il lavoro, il punto centrale che invalida l’idea “naturale” del diritto di proprietà frutto del lavoro è nella estrema contraddittorietà che si coglie ponendosi la domanda di cosa giustifichi la proprietà dei latifondisti o dei proprietari d’industria. Questi, ricorda Proudhon, posseggono enormi territori (o fabbriche manifatturiere) che non lavorano ma da cui ricavano delle rendite. Probabilmente essi hanno lavorato in passato e, quindi, acquisito il diritto alla proprietà di tali beni. Ma oggi? Il contadino salariato, il colono, l’operaio continua a lavorare quelle stesse terre, quegli stessi mezzi di produzione e ne trae dei prodotti. Eppure non ne acquisisce la proprietà. In base al principio per cui il lavoro fonda la proprietà, questi avrebbe diritto, non solo ai prodotti, ma anche ad una quota della terra. Ma ciò non avviene. Insomma, ciò che fu valido per alcuni, non può più essere valido per altri. Ciò è un controsenso. In definitiva, la proprietà, che l’autore distingue nettamente dal possesso, è il fatto economico attraverso il quale un oggetto nelle proprie disponibilità diventa creatore d’interessi. (l’intraducibile droit d’aubaine).
Non solo si ritrova in queste considerazioni il germe del concetto marxiano di “alienazione”, ma a Proudhon è da attribuirsi anche la paternità di quella teoria del “plus-valore”, generalmente considerata parto del pensatore tedesco. Il francese la esprime nei termini della forza collettiva:

Duecento granatieri hanno alzato sulla base in qualche ora l’obelisco di Luxor; si suppone che un solo uomo, in duecento giorni, ne sarebbe venuto a capo? Tuttavia, per il conto del capitalista, la somma dei salari sarebbe stata la stessa.

(Che cos’è la proprietà?)

Il profitto del capitale è nella sproporzione fra le somme consegnate ai lavoratori per le loro singole forze e il prodotto collettivo creato, frutto di una forza collettiva non conteggiata ed intascata dal capitalista. Un furto, quello della forza collettiva, perpetrato sulla scorta del furto primordiale, la proprietà.

In conclusione, ci dice Proudhon,
La proprietà non esiste per se stessa; per prodursi, per agire, ha bisogno di una causa esterna, che è la forza (l’ocupazione) o la frode (far credere che dal lavoro discenda la proprietà).


(da Che cos’è la proprietà)

In realtà, ce ne sarebbe un’altra, ma nulla ha a che fare con i diritti naturali: è l’accordo. Ma questa è un’altra storia.

Continua…..

Te lo do io Proudhon!


ovvero: basta un poco di zucchero e la pillola va giù…

di Luigi Corvaglia

Una riflessione su Proudhon da Corvaglia sulla rivista http://tarantula.ilcannocchiale.it/

I PARTE

La proprietà è un furto P..J. Proudhon (1840)
La proprietà è libertà P.J. Proudhon (1865)

1. Invito alla lettura

Proudhon, chi è costui? non certo un Carneade. Eppure, celeberrimo motto a parte (“la proprietà è un furto”), perfino molti di quanti si professano partigiani di quell’anarchismo che vide nel pensatore francese il primo interprete di grande spessore non vanno oltre una manciata di luoghi comuni buoni per intrattenere un salotto di provincia. Nella schiera dei don Abbondio libertari, però, non tutti sono ignoranti. Alcuni sono in malafede. Pochi, però, riescono nell’ardua impresa di coniugare in vario grado ignoranza e malafede. Fra questi ultimi, principalmente, i cosiddetti “anarcocapitalisti”. Infatti, è generalmente la sola ignoranza o la sola malafede la responsabile dell’arruolamento del tipografo di Becanson nella truppa dei socialisti (ciò sulla scorta, appunto, del noto motto anti-proprietaristico letto sui Bignami al liceo). Ma è generalmente la commistione delle due cose a produrre la bislacca teoria di un “primo” ed un “secondo” Proudhon. Quest’ultimo sarebbe artefice di un ripensamento sul supposto giovanile socialismo per accogliere una visione a questo opposta. L’ ambiguità non è nuova. C’è ancora chi ricorda perfino la svolta proudhoniana di un Bettino Craxi alla ricerca di un referente nobile del socialismo non marxista e aperto al mercato. Oggi il liso panciotto del tipografo è tirato di qua e di la, dagli anarchici meno romantici e nichilisti come dai sedicenti “federalisti” ora così a la page; ma è con i seguaci dell’anarcocapitalismo di Murray Rothbard che avviene la “transustanziazione”. Il pane ed il vino del mutualismo proudhoniano diventano corpo e sangue del liberismo radicale in un processo che, mantenendo la forma, ne modifica irrimediabilmente la sostanza. In definitiva, mentre a “sinistra” si enfatizza, per non aver letto, la devastante critica alla proprietà espressa nel 1840, a “destra” si sottolinea, per aver letto poco, male e in malafede, la difesa della proprietà del 1865, affermando che quest’ultima sarebbe una revisione di quanto affermato venticinque anni prima. Ciò farebbe di Pierre Joseph Proudhon un tardivo liberale dall’imbarazzante passato. Nulla di più falso. Quanto scritto nella sua Quarta memoria sulla proprietà non è affatto in contrasto con ciò che l’autore aveva espresso in Che cos’è la proprietà?. E’, anzi, un completamento dell’analisi precedentemente svolta. Chi non lo capisce non ha colto (per uno dei due fattori prima elencati) che l’apparente differenza dell’esito dell’analisi proudhoniana è frutto del diverso piano di lettura, cioè del punto di partenza giusnaturalista e di quello utilitarista. Ridotta in pillole (ma, per gli amici giusnaturalisti, in supposte) la questione è che, proprio in quanto giusnaturalista, fedele alla visione di imprescindibili diritti naturali, Proudhon afferma che nulla può giustificare la proprietà come dato naturale ed auto evidente al pari di altri. Essa è immorale, è abuso, è furto dell’eguale diritto dei non proprietari all’usufrutto della terra. E’ solo nella Quarta memoria che egli passa ad esaminare la cosa dal punto di vista dell’ utile. Davanti ad un abuso ancora più grande, lo Stato, ladro monopolista, l’unico contrappeso al grande abuso pubblico è il piccolo abuso privato, l’unica difesa contro la violenza concentrata è l’atto di forza dei singoli, un contropotere decentrante in grado di creare, in una concezione, si badi bene, mutualista, sacche di resistenza. Non c’è contraddizione: I don Abbondio si mettano l’anima in pace. Riflettano, magari, sull’attualità di un pensatore che un secolo e mezzo prima delle scaramucce accademiche e salottiere fra giusnaturalisti e utilitaristi, fra anarcodestroidi e anarcosognatori, fra individualisti e socialisti che infestano la discussione odierna aveva già affrontato e risolto in poche mosse la questione. Propedeutico, però, sarebbe leggere. Contro il dogmatismo della sacralità della proprietà e contro quello dell’abolizione del mercato, una vera mano santa. Da assumere prima e dopo i pasti. Tenere lontano dalla portata degli idioti.

CONTINUA…….