ABOLIRE L’INPS, UN PROGETTO LIBERTARIO

luglio 12, 2011 6 commenti

Tutto ciò che è coercizione è nato e vive come ammortizzatore sociale, assistenzialismo per tenere calmi gli individui e assecondare con l’imposizione, servizi gestiti pessimamente e oligarchicamente. Tra questi vi è la storia e il lavoro dell’INPS che è un castello di carta che prima o poi verrà giù, una baraccone che sta dimostrando il proprio fallimento. Una questione di libertà di scelta, qualsiasi individuo deve essere libero di decidere dove e come versare i contributi, non deve essere lo Stato ad imporre tale scelta. Perché lo Stato non consente di detrarre i soldi che s’ investono a fini previdenziali? I soldi dei contribuenti fanno gola a gente che non sa cosa sia il lavoro ne conosce nulla sulla storia individuale del lavoratore che li versa, semplicemente ha ricevuto il diritto dallo Stato di gestirli al posto dell’individuo attraverso un regime di monopolio.
Un primo passo da sostenere e diffondere è la riforma dei contributi silenti proposta dai Radicali Italiani e dall’ANCOT ( Associazione Nazionale Consulenti Tributari) . I Contributi silenti sono quei contributi previdenziali che una persona versa durante la propria carriera lavorativa, ma che non sono sufficienti a maturare una pensione, per cui vengono completamente persi: vanno a pagare le pensioni di altri o a mantenere carrozzoni parassiti proprio come l’INPS ma non danno diritto ad una pensione per sé. Milioni di persone (precari, parasubordinati, liberi professionisti non iscritti ad ordini, giovani lavoratori di oggi) si ritroveranno nei prossimi anni con pensioni da fame, o addirittura senza una pensione: una vera e propria emergenza sociale, economica e politica su cui lo Stato tace, mentre i vertici nazionali dell’INPS non esprimono opinione. Come ha espresso Davide Leonardi, un attivista libertario, che ha partecipato all’iniziativa dei contributi silenti con i Radicali, l’Inps deve chiudere per fallimento, con la restituzione di tutti i contributi “quelli silenti e quelli parlanti”. La chiusura dell’Inps è un progetto libertario, di libera scelta, di sovranità dell’individuo, la vera svolta starà nel desacralizzare questa istituzione, un progetto politico che merita appoggio da parte di tutti gli autentici liberali e libertari, ricordandoci che parliamo di svariati fior fiori di milioni di euro.

Domenico Letizia, Associazione “Diritto e Mercato”

http://www.pensalibero.it/Dettaglio.asp?IDNotizia=6675

Agora Valley

Che cosa avviene all’interno di Agora Valley? Nulla di più semplice, è la mecca del libero mercato degli anarchici di mercato. Vi saranno i venditori di ogni genere e forma, varie forniture di beni e prodotti commerciati e venduti su base volontaria.
La ristorazione sarà espressa dalla valutazione soggettiva di ogni individuo. Quest’anno, ci sono tre percorsi invece di uno e ogni passaggio pedonale sarà venduto al miglior offerente. Il trasporto e la consegna dei prodotti sarà disponibile attraverso vari carrelli da golf. Insomma, immaginate una società senza Stato, un mercato dove il business si sviluppa spontaneamente tra cliente e venditore, il tintinnio dello scambio con monete anche d’argento, i gentili ringraziamenti, e il cibo delizioso consumato.

Quale gamma di prodotti e servizi saranno disponibili? Abbiamo un elenco completo: profumi, custodie in pelle e cinture, libri, matrimoni apolidi, saponi, articoli per fumatori, gioielli, arte, magliette, fumetti, assicurazioni per attivisti, assistenza medica volontaria, massaggi, frullati (anche frullati di latte crudo), riso e curry, cibi in scatola, sigarette, corsi di ballo, piste da ballo, e varie sale per intrattenimento.

Per info e comunicazioni: http://porcfest.com/

I MERITI DEL LIBERTARISMO CHE LA SINISTRA DOVREBBE CAPIRE

aprile 4, 2011 2 commenti

Quando si parla di libertarismo (a volte viene utilizzato anche il termine anarcocapitalismo che rappresenta una delle tendenze del libertarismo) si pensa subito e giustamente a una società completamente privatizzata e libera dalla presenza dello stato. Questo modello sociale provoca terrore nelle logiche mentali di chi analizza e studia gli effetti disastrosi del capitalismo attuale. Ma la teoria e la pratica anarco-capitalista non possono essere visionate così superficialmente, soprattutto se scrutiamo questo modello, come ho fatto, partendo da “sinistra”. Tutti i libertarian seri sanno e riconoscono che l’attuale neoliberismo non è quello profetizzato, dimostrando scientificamente come l’attuale distorsione del capitalismo, che è all’opposto del libero mercato, sia frutto delle interferenze e dei monopoli dello stato nell’economia e nelle scelte politiche. Chiunque analizzi il modello libertarian o anarco-capitalista e si riscontri con studiosi, sconosciuti ai più, come Bruno Leoni si ritrova a contatto con elaborazioni teoriche come l’individualismo metodologico. Tutta la scuola austriaca basa i propri modelli su tale individualismo che auspica una visione sperimentale della società e della politica, o meglio, come scrisse uno degli austriaci più conosciuti, F. A. Hayek, «solo laddove sia possibile sperimentare un gran numero di modi diversi di fare le cose si otterrà una varietà di esperienze, di conoscenze e di capacità individuali tali da consentire, attraverso la selezione ininterrotta delle più efficaci fra queste, un miglioramento costante», la sperimentazione di tanti modelli sociali, politici ed economici, qualunque essi siano, l’importante che vengano scelti volontariamente e che non aggrediscano corpo e proprietà altrui. Una società privatizzata ma soprattutto liberalizzata che da forza alle capacità individuali, diffondendo sovranità e consapevolezza delle proprie scelte, non-violenta e che lascia sperimentare e far applicare tutti i modelli sociali alternativi, antiautoritari e democratici che l’attuale monopolio statale non fa fiorire e distrugge. Alla “sinistra” attuale la libertà fa paura, ma per chi è di sinistra (se per sinistra intendiamo i principi della giustizia e della libertà) il libertarismo antistatalista diviene il modello ideale in cui confrontarsi applicando e rispettando un principio di tolleranza. A conferma di ciò basti pensare che certe formulazione teoriche della New Left come le teorie volontariste, neomutualiste (Kevin Carson) e per l’autogestione hanno conforto e presupposti proprio nell’economia austriaca, che è alla base del modello anarcocapitalista e libertarian. Insomma, il libertarismo come sinistra estrema liberale? Superare certe paure dovute a termini ed etichette è il presupposto iniziale, anche perché molto va modificato e rivisto dell’attuale libertarismo. La parola cane non morde, questo attuale autoritarismo statalista, sì.

(Domenico Letizia)
http://www.lucidamente.com/default.asp?page=fullonair

Per l’inventario e la contabilizzazione in bilancio di tutti i beni comunali

Petizione che potete presentare in tutti i Comuni, chi vuole partire con questa petizione mi faccia sapere.
Domenico Letizia

All’Amministrazione di ….,
Al Comune di…..,

Per l’inventario e la contabilizzazione in bilancio di tutti i beni comunali di ……
Già nel 1896, Antonio Labriola scriveva che, con l’evoluzione storica, lo Stato “è dovuto divenire una potenza economica”, in particolare “nella diretta proprietà del demanio”, oltre che “nella razzia, nella preda, nell’imposizione bellica”. Oggi questo demanio è sterminato: strade e autostrade, porti e aeroporti, impianti energetici, beni storici e artistici, coste, acque territoriali, fiumi, laghi, risorse naturali degli enti locali, miniere, cave e, per accessione, rete elettrica e cavi telefonici (almeno potenzialmente) presenti in tutti i comuni italiani. L’art. 2424 c.c. impone che i cespiti immobiliari siano iscritti in bilancio all’attivo, ma i Comuni, come gli altri enti territoriali, non applicano a sé il codice civile e quindi non iscrivono quei beni, perché non li trattano da ricchezze quali sono, ma solo da oneri. Con la seguente petizione chiediamo all’amministrazione di …….. di stilare un inventario di tutti i beni di proprietà comunale stabilendo per ognuno il valore di mercato di estimo, con conseguente iscrizione in bilancio di questo valore in modo da rendere finalmente pubblico, trasparente, reale e senza ipocrisie la ricchezza comunale della Città di ………. .

Contatti:
Domenico Letizia: anarhkydom@hotmail.it

L’anarchia fai da te – Il Pubblico dominio anarchico contro la Proprietà intellettuale

(di Altipiani Azionati)

L’autore di questo testo rinuncia volontariamente ai diritti d’autore donando la propria opera al pubblico dominio come azione anti-copyright contro la proprietà intellettuale.

È troppo tempo ormai che sento indegnamente associare la parola o il concetto di anarchia al fenomeno dell’Open Source, l’Open Content , Copyleft o al cosiddetto permesso d’autore. Ciò deve essere avvenuto probabilmente in seguito alla pubblicazione in rete dell’articolo di Eben Moglen Il Trionfo dell’Anarchia: il Software Libero e la Morte del Diritto d’Autore apparso per la prima volta in First Monday, peer-reviewed journal on the internet vol. 4, n. 8 il 2-agosto-1999 (titolo originale: Anarchism Triumphant: Free Software and the Death of Copyright http://emoglen.law.columbia.edu/… e tradotto da Francesco Paparella
(l’articolo si può consultare in italiano al link http://ftp.unina.it/pub/…).

Devo ammettere che, tutto sommato, il pezzo è stato scritto egregiamente, come tra l’altro si conviene ad ogni buon giurista o avvocato che si rispetti (e Eben Moglen è uno di questi), purtroppo il trionfo anarchico preannunciato dal titolo non si vede per niente. Semmai è proprio il contrario: una strenua difesa della proprietà intellettuale che ormai costretta a rinunciare al monopolio del full-copyright ha bisogno di darsi una veste nuova, più moderna e tollerante, al passo con la new economy. L’articolo esordisce con una analisi alquanto approfondita e veritiera sulla contraddittorietà e inapplicabilità del copyright per i prodotti informatici, chiarendo che la validità legale del copyright sulle opere informatiche, essendo esse non altro se non una comune sequenza numerica, si fonda su fumosi cavilli legali ed in caso di controversia è a totale discrezionalità dei giudici. Alla fine, l’articolo non si risolve nella preannunciata morte del diritto d’autore, bensì in una idea di liberismo all’americana semplicemente avendo spostato il meccanismo economico-commerciale dal monopolio del copyright (all right riserved) ad una forma allargata di copyright, il copyleft, che manterrebbe tuttavia intatta la sua principale funzione commerciale ma con in più la pretesa di salvaguardare i principi di libertà (!?…)

Dice testualmente Eben Moglen:

«Quando si parla di software libero (free software), ci si riferisce alla libertà, non al prezzo. Le nostre Licenze (la GPL e la LGPL) sono progettate per assicurarsi che ciascuno abbia la libertà di distribuire copie del software libero (e farsi pagare per questo, se vuole), che ciascuno riceva il codice sorgente o che lo possa ottenere se lo desidera, che ciascuno possa modificare il programma o usarne delle parti in nuovi programmi liberi e che ciascuno sappia di potere fare queste cose.»

Quindi la libertà principale sarebbe quella di rendere accessibile dice Moglen gratuitamente ma anche in cambio di un compenso, il software libero agli utenti che lo vorranno e che a loro volta sono tenuti a rispettare tale condizione con eventuali altri interessati, per evitare che qualcuno possa espropriare il diritto alla libera divulgazione, apponendo il suo full-copyright su eventuali modifiche apportate al software.

In particolare aggiunge Moglen:

«Per proteggere i diritti dell’utente, abbiamo bisogno di creare delle restrizioni che vietino a chiunque di negare questi diritti o di chiedere di rinunciarvi. Queste restrizioni si traducono in certe responsabilità per chi distribuisce copie del software e per chi lo modifica. Per esempio, chi distribuisce copie di un programma coperto da GPL, sia gratis sia in cambio di un compenso, deve concedere ai destinatari tutti i diritti che ha ricevuto. Deve anche assicurarsi che i destinatari ricevano o possano ottenere il codice sorgente. E deve mostrar loro queste condizioni di licenza, in modo che essi conoscano i propri diritti. […] La GPL è differente dalle altre espressioni di questi valori in un aspetto cruciale, formalizzato nel paragrafo 2 della licenza: È lecito modificare la propria copia o copie del Programma, o parte di esso, creando perciò un’opera basata sul Programma, e copiare o distribuire tali modifiche o tale opera secondo i termini del precedente comma 1, a patto che siano soddisfatte tutte le condizioni che seguono:
[…] b) Bisogna fare in modo che ogni opera distribuita o pubblicata, che in parte o nella sua totalità derivi dal Programma o da parti di esso, sia concessa in licenza gratuita nella sua interezza ad ogni terza parte, secondo i termini di questa Licenza.»

Si capisce intanto che queste necessarie restrizioni che ci consentirebbero di raggiungere la libertà di poter accedere alle modifiche del lavoro svolto, sono strettamente legate al software libero, un prodotto commerciale legato al mondo dell’informatica in generale e che oggi ha molto mercato. Non è quindi un discorso che possiamo estendere a un concetto più ampio di prodotto culturale come potrebbe essere un libro o un’opera concettuale.

È più che altro riferito ad una applicazione e il poter accedere liberamente alle eventuali modifiche di un software non è per se stesso un atto meritorio o di libertà: possono esistere software (come i videogiochi) che esaltano anche principi illiberali ed il cui sviluppo potrebbe a qualcuno non interessare affatto. In ogni caso avere apportato delle modifiche ad un software non significa per questo averlo necessariamente migliorato: potrebbe voler dire anche il contrario. Tutto dipende dal tipo di software, dal contesto commerciale e dalle sue eventuali applicazioni. Inoltre anche da un punto di vista culturale potrebbe significare una restrizione, un condizionamento, perché si tende a modificare o migliorare una cosa che hanno impostato altri prima di me e di cui io sono solo un mero operatore.

Fortunatamente la “cultura” è una cosa più generale e non è confinata all’informatica, anzi…
Il più delle volte le idee, quando non trovano una diretta applicazione nel mondo delle reali opportunità, rimangono concetti mentali, sono il prodotto, per lo più di singoli individui e non sono necessariamente suscettibili di modifiche e/o miglioramenti. Per dirla in breve c’è una sorta di prodotto culturale che non risponde alla solita funzione commerciale alla quale siamo stati da sempre abituati dal sistema capitalistico secondo cui ogni cosa, per funzionare bene, deve essere condivisa e fruibile da più persone possibili, giusto perché bisogna salvaguardarne l’aspetto utilitaristico, commerciale. La cultura non è popolare o impopolare: la cultura è quanto di più ci sia e basta.

Ma a chiarire meglio le cose che dico è Lawrence Lessig, un altro giurista statunitense famoso per essere il padre della Creative Commons e che nella prefazione a pag. 11 del suo libro Cultura libera. Un equilibrio fra anarchia e controllo, contro l’estremismo della proprietà intellettuale, Apogeo, 2005, afferma senza mezzi termini:

«Analogamente alle posizioni di Stallmann sul software libero, la tesi a sostegno sulla cultura libera inciampa su un malinteso difficile da evitare e ancora più difficile da comprendere. Una cultura libera non è priva di proprietà; non è una cultura in cui gli artisti non vengono ricompensati. Una cultura senza proprietà, in cui i creatori non ricevono un compenso, è anarchia, non libertà. E io non intendo promuovere l’anarchia. Al contrario la cultura libera che difendo in questo libro è in equilibrio tra anarchia e controllo. La cultura libera, al pari del libero mercato, è colma di proprietà. Trabocca di norme sulla proprietà e di contratti che vengono applicati dallo Stato. Ma proprio come il libero mercato si corrompe se la proprietà diventa feudale, anche una cultura libera può essere danneggiata dall’estremismo nei diritti di proprietà che la definiscono. Questo è ciò che oggi temo per la nostra cultura. È per oppormi a tale estremismo che ho scritto questo libro.»

Ora, sorvolando sulle inevitabili obiezioni circa l’improbabile uso del termine corrente di anarchia in quanto disordine, che potrebbe aver fatto Lessig in questa sua dichiarazione, un qualunque anarchico (forse non anglossassone) come lo potrei essere io, comprende facilmente che una proprietà intellettuale, così come viene concepita da Lessig e così come tutelato dal diritto giuridico Statale, non può e non deve esistere. Mi spiego meglio. La cosiddetta cultura libera che professa Lessig e come lui tutti gli altri sostenitori del permesso d’autore, sarebbe quindi possibile, come sostiene egli stesso, solo in un contesto di tutela della proprietà, perché lo scopo ultimo non è tanto quello della divulgazione, ma è quello di salvaguardare il diritto economico esclusivo che ne deriva da esso, anche se apparentemente non sembrerebbe, visto il diritto di accesso gratuito che propugnerebbero.

Questi signori, quando parlano di cultura libera confondono due diversi ambiti, quello informatico della realtà virtuale, con quello della editoria della carta stampata, facendone un tutt’uno, quando di fatto sanno bene che una è in funzione dell’altra. È vero che combattendo il full-copyright si evita il monopolio di pochi proprio come è vero che i vari permessi d’autore fungono da volano per la carta stampata in quanto prodotto commerciale, e a garanzia di tutto ciò vi è la inviolabile legge sul copyright.
Un siffatto sistema di libera cultura è sostanzialmente finalizzato a rilanciare il solito mercato dell’editoria, che in alcuni casi, seppur rinnovato (editoria indipendente), continuerà ad applicare i principi di popolarità del testo imposti dalle leggi del mercato, non favorendo per nulla i non abbienti (per intenderci quelli che non possono accedere ai mezzi informatici) e non corrispondendo ai principi di libera cultura, libera anche dai meccanismi commerciali.

Moglen, Stalmann, Lessig e tutti gli altri, così come anche per lo Stato, in riferimento al diritto d’autore, considerano il concetto di proprietà di un’opera come inscindibile da quello di paternità. Queste due cose per loro sono la stessa cosa, solo perché, in questo modo, si potrà vantare il diritto economico all’utilizzazione dell’opera stessa, sia direttamente quando l’autore è in vita, che dopo la sua morte come “rendita”.

Ma la proprietà per fortuna è cosa diversa dalla paternità e questo ogni buon anarchico lo sa: la reale necessità di abitare in una casa dignitosa, ad esempio, è cosa diversa dal sostenere che io ho il diritto di vendere tale casa o affittarla per ricavarne un utile, una rendita, così come cedere al pubblico dominio una propria opera frutto dell’ingegno, rinunciando ai diritti d’autore, non significa aver rinunciato alla paternità dell’opera, giacché comparirà sempre il mio nome su quest’opera, e non vuol dire neanche essermi spossessato di qualcosa che poteva appartenermi in maniera esclusiva, ma significa semplicemente aver condiviso con gli altri l’utilizzazione e gli eventuali benefici dell’opera rinunciando a ogni eventuale ricavo economico proprio per averne conservata la paternità, ma rifiutata la proprietà intellettuale. Quello che avviene poi in futuro delle opere derivate ed eventuali traduzioni a full-copyright non ci riguarda personalmente. In pratica relativamente alla proprietà intellettuale la domanda da porsi da anarchici è quanto sia lecito ai fini di una libera cultura continuare a vincolare in qualche modo la divulgazione delle (proprie) idee ad un costo, un prezzo da pagare, qualunque esso sia. La mia risposta è: per nulla!
A mio avviso la proprietà intellettuale e il mestiere di intellettuale devono essere banditi dagli anarchici: non generano affatto una libera cultura e la prova evidente di quello che sostengo è sotto gli occhi di tutti.

p.s.: il 26/10/2009 avevo invitato con una e-mail circolare diverse organizzazioni anarchiche ad aprire un dibattito sulla mia proposta di PUBBLICO DOMINIO ANARCHICO (Antiscadenza) ed in particolare a: [undisclosed recipients]

Ho ricevuto solo la risposta da Pino Bertelli che ho il piacere di pubblicare e che approfitto per ringraziare:

«Carissimi/o di Altipiani Azionanti… non so quale sia la posizione degli anarchici rispetto alle licenze di pubblicazione delle opere d’ingegno… e nemmeno mi interessa… ciascuno è principe di sé e della propria mediocrità o bellezza… per quanto mi riguarda posso dire quale è la mia visione dei diritti d’autore… ogni mio lavoro può essere rubato, dètournato, plagiato.. senza l’obbligo di citare la fonte… tuttavia sarebbe una cosa graziosa da parte del malfattore che si appropria della cosa scippata, ricordare da qualche parte l’origine del saccheggio… un abbraccio fraterno, Pino Bertelli.»

Peccato però che ai propositi non corrispondono i fatti e sul suo sito compare il simbolo © Copyright 2004-2009 (come per dire in fondo siamo uomini!). A tutti gli altri la questione sembra non sfiorarli nemmeno, pur sfornando di continuo testi, recensioni e opere varie. Per me è un triste risultato…

Tratto da: http://www.amnesiavivace.it/sommario/rivista/brani/pezzo.asp?id=478

Una teoria Libertaria del diritto

di Domenico Letizia

Una teoria libertaria parte dal presupposto antiautoritario che l’imposizione e la coercizione sono danno per l’individuo, da queste considerazioni ogni “legge” è ritenuta non legittima perché imposta da una maggioranza su una minoranza, non condivisa e non adatta ad ogni situazione “localistica” ma programmata, pianificata, centralizzata e istituzionalizzata. Il libertarismo è contro la legge, ma non contro le regole, anzi ciò che il movimento anarchico ha insegnato all’umanità è proprio la condivisione e la partecipazione alla creazione e alla sperimentazione di regole, capacità di autorganizzazione e regole di convivenza comune, una sorta di diritto etico, non monopolizzato e in continuo cambiamento in rapporto alle situazioni e alle condizioni. Per i libertari legge e diritto non sono e non rappresentano la stessa cosa. Il diritto risulta essere il frutto dell’esperienza di vita, il risultato di un percorso razionale di conoscenza e sperimentazione. La tradizione anarchica ha ben illustralo ciò che rappresenta diritto e ciò che rappresenta imposizione. Proudhon ha tenuto distinte le nozioni di legge e di diritto dove la prima è manifestazione dell’esercizio della forza monopolizzata dallo stato, mentre il secondo comprende tutte le forme di regolazione, di mediazione e di amministrazione dei rapporti, degli interessi e dei conflitti che occupano le vicende umane, una concezione libertaria del diritto che definisco basata su rapporti antigerarchici e consensualisti. Una teoria del diritto libertaria che superi l’eterna contraddizione tra utilitarismo e giusnaturalismo e dia approccio ad una condizione giuridica di consenso e di accettazione, di “tolleranza giuridica”. L’esperto di diritto Fabio Massimo Nicosia ha cercato di strutturare tal teoria su concezioni consensualiste e di “mercato” ( inteso come frutto dell’accordo e del libero scambio). Secondo quest’ottica consensualista il “mercato”, infatti, è un meccanismo regolatore ed autoregolato delle azioni umane che funziona anzitutto come ordine politico e giuridico. Le stesse norme di comportamento o le lingue in uso presso i vari gruppi umani sono il prodotto di questo meccanismo acefalo ed autopoietico. Tutto secondo tal concezione teorica risulta essere il frutto del confronto; tutto viene, cioè, da attive e dinamiche transazioni che si possono definire, in senso lato, “di mercato”; pertanto, la stessa proprietà nasce dal mercato, non dal diritto naturale, ma quale utile, temporanea convenzione. Ma, se una convenzione è tale, non ha nulla di sacro e di definito, “perenne” e, in mutate condizioni, il “mercato” ( inteso come sintema dinamico di confronto, indipendentemente dal fatto che si tratti di merci, di idee o usi, costumi, linguaggi, ecc. ) può rivedere le proprie “decisioni” che sono sempre frutto del consenso, dell’accordo e del confronto. Tali riflessioni senza cadere in speculazioni troppo filosofiche e teoriche risultano interessanti proprio a confermare di come la legge sia frutto di un imposizione coercitiva e di come stesso le Costituzioni possono essere create, cambiate e discusse su base volontaristiche e di confronto. L’anarco-individualista americano Lysander Spooner descriveva di una costituzione senza autorità, Spooner muoveva la critica alla Costituzione Americana da un presupposto “realistico”: secondo lui un contratto, per essere valido, deve essere stipulato da persone fisiche in rapporto tra loro, messo per iscritto, firmato dalle parti. Senza questa procedura un contratto non ha alcuna autorità e non produce alcun obbligo, insomma non è frutto del confronto e della tolleranza. Interessante, insomma, sarebbe avviare un dibattito tra libertari sul diritto e sulla sua applicazione libertaria.

A Rivista Anarchica, Marzo 2011

Organizzare l’Interesse civile globale per la democratizzazione e smilitarizzazione di tutti i Paesi

Coalizione dell’interesse civile globale comune unito
per la democratizzazione e la libertà individuale in ogni Paese e per la smilitarizzazione universale:
per la pace, lo sviluppo, la prosperità e la libertà
unire la società civile contro gli interessi distruttivi (non civili): militari, tirannici e terroristici

Il tutto da leggere qui: http://www.radicali.it/20110203/organizzare-linteresse-civile-globale-democratizzazione-smilitarizzazione-di-tutti-paesi

Il mito Americano in ottica libertaria

gennaio 29, 2011 4 commenti

Lo studio della cultura e della storia americana statunitense, soprattutto secondo un ottica libertaria, crea davvero innumerevoli sorprese agli occhi di un osservatore o ricercatore europeo. Sostanziali differenze storiche dividono l’America della frontiera nata libera e l’Europa dell’oscurità e delle monarchie assolute. Cosa aspettarsi d’altronde dal paese che è nato con una rivolta fiscale, padre di colui che è stato l’apologeta della Disobbedienza Civile: Henry David Thoreau e dei referendum per la legalizzazione della marijuana. Gli Stati Uniti vantano di una tradizione libertaria autoctona sconosciuta agli europei, avversa ad ogni ragionamento di matrice marxista, autori come Spooner, Stephen Andrews, lo stesso Thoreau, Benjamin Tucker, William Greene, Josiah Warren, John Henry Mackay, ecc .. La cultura libertaria americana è impregnata di principi radical-liberali dei padri fondatori quali Jefferson ( colui che disse: Il Governo migliore è il governo che governa meno) e questa è presente in tutta la tradizione anarchica e libertaria statunitense. Jefferson, non aveva fiducia in nessuno, né nei ricchi né nei poveri. Egli aveva imparato le lezioni insegnate da Machiavelli, che fondeva la teoria politica al potere. In altre parole Jefferson capì le difficoltà di conservare la libertà, visto che la classe dirigente sempre s’interessa di concentrare più potere nelle sue mani. La teoria jeffersoniana, in effetti, va sempre collegata a un’ispirazione politica individualista. Il padre dell’indipendenza americana propugnava una concezione della libertà che oggi viene detta negativa e che, difendendo lo scambio come luogo di incontro di libere volontà, cercava in primo luogo la minimizzazione della coercizione. Nota è la tesi secondo la quale ogni generazione ha il pieno diritto di darsi regole e autorità del tutto nuove. Poiché gli uomini nascono liberi, gli uomini di domani devono sempre poter disporre della facoltà di ricreare di nuovo quel patto che hanno sottoscritto al termine della loro lotta contro le armate di re Giorgio. L’anarchico americano Spooner nel formulare la sua teoria sulla Costituzione partì da basi jeffersoniane, perché secondo Jefferson ogni costituzione è sempre emendabile. Paul Goodman definisce l’anarchismo una forma di pensiero e azione essenza dell’idea “liberale”: «dopo l’ottocento, alcuni di noi liberali hanno cominciato a chiamarsi anarchici», lo stesso Noam Chomsky ( che ora celebra il despota Chávez come un eroe) riporta nella pubblicazione “Il governo del futuro”: “mi pare dunque, che una volta conosciuto il capitalismo industriale, il liberalismo classico non possa che condurre all’anarchica”. Una concezione “liberale” dunque dell’anarchismo completamente differente da quella europea condizionata dall’ideologia marxista ( con le dovute eccezione: Berneri, Luce Fabbri, ma anche un analisi attenta di Malatesta, Proudhon e Bakunin ). Dal punto di vista storico la tradizione libertaria americana si differenzia da quella europea proprio per cause storiche, perché gli Stati Uniti non hanno mai dovuto combattere una monarchia interna assolutista, di regime, come i paesi Europei. Mentre in Europa anarcoindividualisti attentavano alla vita di sovrani e governanti, in USA sperimentavano comunità libertarie, banche mutualiste, moneta alternativa, casse di mutuo soccorso e fiorivano una marea di giornali e periodici libertari. Lo stesso internazionalismo, mentre in Europa veniva teorizzato e si discuteva tra le varie correnti, in America era un fatto, una quotidianità, essenza stessa del mito americano della frontiera e della libertà di migrazione. Lo spettro politico americano è caratterizzato da una vasta area di “libertarians” di “destra”, di “sinistra”, anarconsindacalisti (es: IWW), minarchici, oggettivisti, volontarsiti, mutualisti e altre categorie. Spesso si è discusso degli “scontri” tra queste aree, ma è vivo anche un confronto e una collaborazione tra quasi tutte queste aree in nome dell’antistatalismo e del confronto culturale, soprattutto dopo la nascita dell’Alliance of left-libertarian che si batte contro il militarismo, lo statalismo, il sessismo e il monopolio economico. Il quadro libertario americano risulta essere complesso, frutto di una tradizione liberale che ha sempre posizionato al centro l’individuo, le libertà individuali, la secessione dallo stato, lo sperimentalismo e possibilismo in ambito economico. L’attuale cultura economica, sociale e politica degli Stati Uniti risulta essere opposta a quella che prefiguravano i padri fondatori e chi diede vita alla Costituzione Americana, ecco perché, da più voci, oggi si grida ad una nuova rivoluzione americana, un americanista convinto allo stato attuale non può essere che il più convinto antiamericano.

Domenico Letizia

Mensile Libertario Cenerentola, Gennaio 2011

Hoppe Hoppe, cavallino

gennaio 17, 2011 4 commenti

Carlo Romano

Hans-Hermann Hoppe è nato in Germania nel 1949, ha studiato con Jürgen Habermas, si è addottorato a Francoforte, ha insegnato in varie Università del suo paese, per qualche tempo è salito in cattedra pure a Bologna e vive da anni negli Stati Uniti dove, sotto la guida di Murray N. Rothbard, dal quale ha ereditato il posto alla University of Nevada, ha approfondito la conoscenza del pensiero libertario americano, finendo col diventarne un elemento di spicco. In Paleolibertarismo (Rubbettino, € 12) Piero Vernaglione ne ricostruisce l’originale vicenda intellettuale, che tale è soprattutto pensando alla scarsa considerazione in cui il nuovo maestro americano teneva le idee della sua formazione europea. Prima di morire nel 1995, Rothbard aveva peraltro impresso una svolta al proprio pensiero, insistendo fra l’altro sul ruolo della morale, in special modo la cattolica, come legge alternativa a quelle avanzate dai sistemi statali una volta che la libertà economica avesse portato ai suoi naturali esiti anarchici. Diversi pensatori libertari (free-market) condivisero la svolta. Persino chi, come Walter Block, aveva sostenuto di “difendere l’indifendibile” – spacciatori, falsari, ruffiani ecc. – intonava adesso il Mea culpa. Hoppe, in particolare, facendo in ogni caso sua la distinzione fra libertarismo e libertinismo, si applicò su taluni aspetti della svolta del maestro inerenti una nuova ipotesi “proprietaria” nei confronti dello stato.
Per i libertari “un governo è un monopolista territoriale della coercizione: un’agenzia che può impegnarsi in continue e istituzionalizzate violazioni dei diritti di proprietà”. Saltare da un’enunciazione così priva di sottintesi a sofisticate distinzioni fra sistemi di governo il cui apparato “sia posseduto privatamente o pubblicamente” parrebbe inutile, dal momento che in una frase ci si è espressi perfettamente. Se poi si ha la sensazione che venga spezzata una lancia in favore del governo “posseduto privatamente”, cioè della monarchia, l’inutile – dato il conclamato contesto libertario – sembra prendere il sapore della provocazione. E qualora di essa Hans-Hermann Hoppe possedesse il gusto, ancor più manifesto è nei suoi saggi lo scrupolo per il ragionare geometricamente ordinato e dunque con la provocazione – se lo è – c’è da attendersi pure l’ostinazione dei contenuti, come dimostra ampiamente Democrazia: il dio che è fallito, pubblicato in italiano, per la traduzione di Alberto Mingardi, da Liberilibri di Macerata (ama@liberilibri.it). Uno scrupolo e un’ostinazione, tuttavia, che non dissolvono ovvie perplessità, innanzitutto l’obiezione che viene spontanea è chiedersi cosa possa veramente cambiare nella vita dei “i sudditi” una volta che sia riconosciuto il diritto di proprietà sull’organismo statale.

Per cominciare, Hoppe sostiene all’incirca quel che sostengono i monarchici, vale a dire che “un proprietario privato del governo” avrà comunque l’interesse a limitare le proprie politiche di sfruttamento se vuole mantenere la fonte dei suoi godimenti e valorizzare il patrimonio dello stato. Tuttavia, aggiunge Hoppe, le restrizioni poste all’accesso nel gruppo dominante rafforza la solidarietà fra i sudditi come potenziali vittime delle aggressioni statali, per cui il rischio di perdere legittimazione è grande. Ma il punto è un altro. La monarchia è per Hoppe il paradigma di una regressione che è arrivata a compimento con la democrazia, quando il governo è una pubblica proprietà e chiunque, in linea di principio, ne può entrare a far parte, indebolendo attraverso questa illusione la resistenza al sopruso. La democrazia non è dunque per Hoppe “il peggior sistema di governo ad eccezione di tutti gli altri” come voleva Churchill, ma è proprio il peggiore, quello nel quale le violazioni della libertà si sono dimostrate ingenti come mai nella storia sotto forma di regolamentazione legislativa, espropriazioni, tasse e altro. Il liberale di oggi, afferma Hoppe, se vuole essere coerente coi liberali classici nel diritto di opporsi all’oppressione governativa, deve sospingere questo diritto fino alla “secessione illimitata”, vale a dire “all’illimitata proliferazione di territori liberi e indipendenti”. Anche in questo caso Hoppe non manca di servirsi di termini e concetti che senza dubbio vanno ad urtare la sensibilità delle anime belle, tanto da affermare che in una società nella quale i diritti di proprietà siano compiutamente riconosciuti dovrà necessariamente aumentare la discriminazione, ma è solo per dire (e fa l’esempio degli “stili di vita controculturali”) che chi non accetta le regole non può aspirare a esservi assimilato avendo la libertà di starne fuori. Questi pochi ragguagli non restituiscono in ogni caso la robustezza del libro, alla cui lettura si apre la mente, quand’anche una certa quantità di obiezioni l’affollasse, su riflessioni nient’affatto infruttuose. Questo non vuol dire che la sue tesi convincano.

http://digilander.libero.it/biblioego/HoppeMon.htm

Le pubblicazioni dell’Archivio Berneri – Chessa

di Carlo Romano

Gigi Di Lembo, storico dell’anarchismo” ha definito Aurelio Chessa “il capostipite degli archivisti anarchici”. Nato nel 1913 in Sardegna, a Putifigari, Chessa si trasferisce a Genova e nel 1939 è incarcerato per insubordinazione. Nel capoluogo ligure (dove nasce la figlia Fiamma) diviene una figura di spicco dell’anarchismo locale, soprattutto della tendenza “anti-organizzatrice”. Insieme alla per niente generica attività militante – era stato, fra l’altro, fra i promotori di una lacerante scissione dalla Federazione Anarchica Italiana – e al rapporto speciale intrattenuto coi famigliari di Camillo Berneri – lo scolaro di Salvemini e l’amico anarchico dei Rosselli e di Ernesto Rossi morto in Spagna nel 1937 per mano stalinista – Aurelio Chessa è da ricordare anche per l’intensa attività “tipografica” e di studioso col contributo dato alle edizioni R.L., alla collana Vallera, alle riviste “Volontà” e “L’Internazionale” e a diverse altre pubblicazioni.

L’archivio che porta anche il suo nome, aggiunto alla sua morte avvenuta nel 1996, prende vita nel dopoguerra, quando Chessa comincia a raccogliere materiale anarchico. Giovanna Caleffi (moglie di Berneri) si stabilisce a Genova-Nervi nel 1957 e Chessa le suggerisce di rendere fruibile tutto l’archivio della Famiglia Caleffi-Berneri consistente in libri, periodici, documenti, corrispondenza varia. Alla morte di Giovanna nel 1962 l’unica figlia, Giliana che vive a Parigi, decide di lasciarlo a Chessa. Con gli anni a questi fondi originari se ne aggiungono altri, e non solo schiettamente anarchici, come quello del socialista Giuseppe Faravelli, uno dei grandi animatori di “Critica Sociale”. Importante acquisizione è un grosso fondo proveniente dalla Biblioteca del Circolo anarchico Pietro Gori di Genova-Rivarolo Di particolare rilievo sono le acquisizioni che si devono a Fiamma Chessa, come il fondo relativo a Vernon Richards e i due fondi di Leda Rafanelli.

Dopo la lunga permanenza a Genova, l’archivio segue i trasferimenti del suo fondatore-curatore, che morirà a Rapallo nel 1996: dapprima a Pistoia, quindi a Iglesias, di nuovo a Genova -Bavari, ancora a Pistoia, Canosa di Puglia, Cecina. Dal 1999 l’archivio donato dalla figlia Fiamma al Comune di Reggio Emilia, è locato in una sede indipendente dalla Biblioteca Comunale Panizzi, nata trent’anni fa, per iniziativa dell’amministrazione comunale, dall’accorpamento di due precedenti biblioteche, la Municipale e la Popolare. Ovviamente, l’attività editoriale dell’archivio si confonde per un lungo periodo con quella pubblicistica dello stesso Chessa – su Berneri, anarchismo e futurismo, Clemente Duval, Leda Rafanelli, Sante Pollastro, guerra di Spagna. Corre tuttavia l’obbligo di ricordare, fra le pubblicazioni precedenti a questa provvidenziale sistemazione, l’ Epistolario inedito di Camillo Berneri, edito in 2 volumi a Pistoia. Col trasferimento in Emilia, e con la cura di Fiamma Chessa, le pubblicazioni dell’archivio assumono una maggiore continuità e una fisionomia più precisa, dovuta, va detto, al raffinato progetto grafico di Nicoletta Fontanesi. C’è, prima di tutto, un volume descrittivo dei fondi archivistici (Storie di anarchici e di anarchia. L’archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa, 2000). Ce n’è uno di testimonianze su Chessa stesso (Aurelio Chessa. Il viandante dell’Utopia, 2007) e ci sono gli atti di una giornata di studio dedicata a Berneri (Camillo Berneri. Singolare/plurale, 2005). Fin qui, pur con le caratteristiche di pregio che ho detto, si rimane nel territorio consueto di questo genere di volumi. Altri due volumi rivestono invece a mio parere un carattere di eccezionalità.

Il primo, di formato differente, per un opportuno adeguamento ai contenuti, è una strabiliante raccolta di 150 fotografie di Vernon Richards (l’italo-britannico Vero Recchioni, 1915-2001, cui si deve un classico sulla Guerra di Spagna: Lessons of the Spanish Revolution/Insegnamenti della Rivoluzione Spagnola, Collana Vallera).
Vero, compagno di Maria Luisa Berneri (figlia di Camillo), ritrae fotograficamente, fra gli altri, George Orwell, il quale gli permette di immortalarlo nella sua quotidianità e intimità. Sono sue le foto più note dello scrittore. Con Freedom Press pubblica quattro libri fotografici che raccolgono, divisi per temi, molte delle sue fotografie. Alla sua morte, per suo volere, tutto questo patrimonio fotografico, consistente in circa 5000 scatti, è stato donato a Fiamma Chessa, che ha fatto la scelta di lasciarlo all’Archivio.

Il secondo raccoglie gli atti del convegno di studi dedicato a Leda Rafanelli.
Trattasi in effetti di due libri differenti, riuniti in un solo tomo, il secondo dei quali è un’eccellente quanto rara iconografia, con immagini che coprono più di ottant’anni della sua vita. Nata a Pistoia nel 1880 e morta a Genova nel 1971, si può considerare uno dei più singolari personaggi dell’anarchismo italiano. Convertitasi all’Islam, abbigliata in modo eclettico e “orientaleggiante”, ha nei primi anni del secolo, relazioni col futuro Duce e con Carlo Carrà, e a torto è spesso è ricordata soltanto per questo. Col marito, Luigi Polli, sposato nel 1902, comincia una precisa attività editoriale di stampo radicale. Si lega in seguito all’editore Giuseppe Monanni , con il quale creerà la Casa Editrice Sociale. Verranno editati numerosi classici dell’anarchismo e del radicalismo sociale, ma anche Unamuno, Le Bon, Darwin e London. Usciranno fra l’altro in queste edizioni le opere di Georges Palante, di Giuseppe Ferrari e di Friedrich Nietzsche, prima edizione italiana delle 10 opere, con autorizzazione e prefazione della sorella dell’autore. Contemporaneamente al lavoro editoriale e alle proprie pubblicazioni di protesta, la Rafanelli si dedica alla letteratura per ragazzi, ai romanzi, alle opere teatrali, alle prose ritmiche. Si tratta in pratica di lavori autobiografici. Presso l’Archivio sono conservate moltissime opere inedite. Dopo la fine del rapporto con Monanni, si trasferisce a Sanremo e dopo pochi anni definitivamente a Genova, dove si occuperà dell’educazione dei suoi quattro nipoti insieme alla loro madre (l’unico figlio di Leda muore nel 1944). Si dedicherà alla scrittura e alla chiromanzia. Morirà nel 1971 nella casa in via Gorizia, dove abita ancora il nipote.

“Fogli di Via”, Novembre 2010

Segnaliamo che mentre si compilava il testo, erano in preparazione i seguenti volumi: Un libertario in Europa. Camillo Berneri: fra totalitarismi e democrazia, a cura di Giampietro Berti e Giorgio Sacchetti e Giovanna Caleffi Berneri, Un seme sotto la neve. Carteggi scritti. Dall’antifascismo in esilio alla sinistra eretica del dopoguerra, 1937-1962. Si ringrazia Fiamma Chessa per la collaborazione.

da: http://digilander.libero.it/biblioego/BerneriChessa.htm