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Una riflessione sulla Libertà vista dai Libertari

di Domenico Letizia ( la riflessione nasce da alcune problematiche poste da Ian Carter)

Ciò che unisce tutti i libertari di qualsiasi “Matrice” è il basare la propria intima “costituzione volontaria” di scelte politiche e non su un principio: quella della Libertà.
Ma come identificare in modo anche pratico e pragmatico la libertà? Come identificare, dare un valore reale a questo concetto? Proviamo a proporre una riflessione. Innanzitutto bisogna capire cosa intendiamo con libertà oltre il termine puramente linguistico, cioè se possa esistere una libertà assoluta incondizionata da qualsiasi sostantivo pratico, quindi misurabile con statistiche e ipotesi. Mi spiego, è giusto parlare di libertà in assoluto ( ma non misurabile come concetto) o bisogna parlare di libertà come di far qualcosa, o meglio libertà di stampa, libertà di migrazione, libertà di opporsi alla coercizione, libertà di commercio ecc… Facile notare che stesso il concetto di libertà ha assunto un valore proprio con l’identificazione con un sostantivo e una problematica, ciò mi riporta alla domanda iniziale si può parlare di libertà “assoluta” e se si come è possibile misurarla?
Seconda questione, che ritengo molto importante, è come guardiamo alla libertà ( la stessa argomentazione vale anche per lo scambio, il mercato) se attraverso fattori inclusivi e aggreganti o attraverso fattori esclusivi e puramente “difensivi” (concedetemi il termine) cioè siamo concentrati nel batterci a conquistare la “libertà Di” o la “libertà Da”, molti libertari anarcocapitalisti si soffermano più sul secondo termine sottolineando ( a mio avviso) valori esclusivi che poco hanno a che vedere con il principio di libertà. Altra questione importante è la Libertà in rapporto alla Proprietà. I libertari anarcocapitalisti tendono a identificare la libertà con l’assenza di vincoli ad azioni possibili e ad aggiungere che considerano vincoli solo quelli imposti da agenti non naturali, cioè causati da azioni umane. Quando gli stessi libertari affermano però che il mercato massimizza la libertà e sconvolge i modelli distributivi delle risorse essi devono assumere implicitamente che la libertà è non l’assenza di vincoli imposti da altri ma l’assenza di quei vincoli (sempre imposti dagli altri) empirici che violano i diritti di proprietà. Quindi bisogna stabile un legame direttissimo tra libertà e proprietà? Stesso Hayek sembra discostarsi perché individua un legame contingente tra i due beni. Insomma quale valore dare alla libertà senza cadere in delucidazioni troppo semplicistiche e poco sagge?

  1. Maggio 10, 2010 alle 12:09 PM

    1) Il problema è complesso, ma secondo me è riassumibile in questi termini: se non puoi parlare di libertà in termini assoluti, non hai proprio possibilità di parlare in filosofia morale. Se infatti non hai principi morali assoluti alla base del tuo ragionamento, chi ti dice che la libertà sia meglio del nazionalsocialismo? Il relativismo porta inevitabilmente allo scetticismo: se tutto è uguale a tutto, chi può dire in termini assoluti di avere “ragione”? Chi può dire che Hitler sbagliasse ad eliminare gli ebrei o che i comunisti facessero male a ridurre la popolazione ad un branco di larve?

    2) I libertari anarcocapitalisti si soffermano sull’unico concetto di libertà logicamente possibile, cioè quello di libertà negativa. Il concetto di difesa della proprietà nasce dal principio di non aggressione ed il mercato è solo lo sviluppo logico di quello che si ha in una società di questo tipo. Sinceramente non capisco dov’è il problema. La proprietà è l’estensione della persona nella realtà: violare la proprietà significa violare il corpo degli individui: d’altronde se io mi spezzo la schiena lavorando in miniera per comprarmi il motorino e tu me lo rubi, in sostanza è come se tu mi abbia spezzato la schiena.

  2. Domenico Letizia
    Maggio 10, 2010 alle 1:04 PM

    “Chi può dire che Hitler sbagliasse ad eliminare gli ebrei o che i comunisti facessero male a ridurre la popolazione ad un branco di larve?”

    qui penso che basti rifarsi semplicemnte al principio di non aggressione, è stato violato sia dal punto di vista corporale che dal punto di vista lavoratico e proprietaristico. Insomma il male assoluto senza rifarsi ad un relativismo, da’ltronde il massacro della libertà è misuravile pure in sostantivi. prendiamo in considerazione la libertà in unione sovietica o in un qualsiasi regime ma pure nella nostra sacorsanta ( per loro) democrazia in considerazione di un sostantivo, la libertà di stampa è massacrata, la libertà di commercio è massacrata, la libertà di religione è massacrata ecc… ma ragionando in termini assoluti la libertà cosa diviene? io sono un amante della libertà, ma vorreeii darle un contenuto pragmratico anche a livello metafisco. postuliamo un ipotesi, io ho una proprietà e sono tassato e tassato dallo stramaledetto stato io allora non sono libero, giusto? per assurdità un altro individuo che non ha alcuna proprietà risulta più libero di me perchè non soggetto alla coercezione ma solo povero? ma qui ritorna un altro problema (secondo me) quello delle proprietà e sulla sua sacralizzazione più o meno errata dalla corrente anarcocapitalista ( quella pura).

  3. Maggio 10, 2010 alle 2:22 PM

    Dom, é questione a) di definizioni e b) di quale delle due visioni, “libertà di”/”libertà da”, possa realizzarsi rispettando il principio di non aggressione. Mi pare evidente che solo il concetto di realtà negativa, la “libertà da”, sia compatibile con la non aggressione. Ne consegue che in effetti può é sicuramente più libero un individuo che crepa di fame in un deserto che il cittadino di un paese democratico. Questo non significa di certo che una società che optasse per un’organizzazione nella quale le istituzioni non violino il principio di non aggressione sia destinata a produrre situazioni da “uomo libero con la pancia vuota”. Volontarismo e salvaguardia di convenzioni sociali come la proprietà privata danno migliori risultati rispetto all’inseguimento di chimere da estimatori della “libertà di” come la giustizia sociale e l’egualitarismo che non portano a nulla di buono, proprio come diceva Hayek.

  4. Maggio 10, 2010 alle 2:26 PM

    Domenico, io a volte faccio fatica a seguirti, ma provo lo stesso a replicare:

    “qui penso che basti rifarsi semplicemnte al principio di non aggressione, è stato violato sia dal punto di vista corporale che dal punto di vista lavoratico e proprietaristico.”

    Sì, ma se non hai principi assoluti, appunto, che valore puoi attribuire al principio di non aggressione? Che principio è un principio il cui valore varia in base ai gusti dell’interlocutore?

    Ancora, non capisco dove sia la sacralizzazione della proprietà per gli anarcocapitalisti, nè comprendo in che cosa consista la tua critica. Se parto dal principio razionale che la proprietà è l’estensione di me stesso nel reale, includo la difesa della proprietà nella non aggressione necessaria a qualunque disciplina liberale.

  5. Maggio 10, 2010 alle 2:28 PM

    Mamma mia come ho scritto… Quando scrivo con l’iCoso mentre faccio altre mille cose in contemporanea mi capita di scrivere in dipietrese.

  6. Domenico Letizia
    Maggio 10, 2010 alle 3:42 PM

    ciao Jinzo,
    non leggere come una cirtica ma come una semplice riflessione.
    tralasciando le prime questioni puramente teoriche ove la doscissuone potrebbe allungarsi senza trovare sbocco, anche se si potrebbe concludere che vi è libertà ove vi è prinicipio di non aggressione, rimane il problema della proprietà.
    cioè rifacendomi alle esempio di prima: (o ho una proprietà e sono tassato e tassato dallo stramaledetto stato io allora non sono libero, giusto? per assurdità un altro individuo che non ha alcuna proprietà risulta più libero di me perchè non soggetto alla coercezione ma solo povero?)quando parlo di proprietà il discorso non deve cadere sulla non importanza della proprietà perchè come certo anarchismo anche di matrice europea è giunto a concludere la proprietà rimane l’unica difesa contro lo stato, quindi la proprietà è per sue essenza un BENE, il problema rimane nel come far accedere tutti a questo bene e quindi a questa libertà di difesa dallo stato e se questa ”proprietà” goda di diritti assoluti o sia giunsto il momento di mettere in discussioni i diritti assoluti di proprietà anche predendo in considerazione che la terra originarimanete era di tutti, quindi l’obiezione che almeno ”il passaggio” non sia da escludere a chi non appartenga quella proprietà non mi sembra da escludere.
    Facile costatere che il discorso è passato dalla libertà in termini assoluti alla libertà in termini di proprietà.

  7. Domenico Letizia
    Maggio 10, 2010 alle 4:13 PM

    ”Mi pare evidente che solo il concetto di realtà negativa, la “libertà da”, sia compatibile con la non aggressione. ”

    potresti illustrami meglio il perchè di tale conclusione?

    “Questo non significa di certo che una società che optasse per un’organizzazione nella quale le istituzioni non violino il principio di non aggressione sia destinata a produrre situazioni da “uomo libero con la pancia vuota”. Volontarismo e salvaguardia di convenzioni sociali come la proprietà privata danno migliori risultati”

    assolutamente d’accordo, infatti il naufragio dello statalismo metterebbe in dubbio anche quelle proprietà che sono state erette e dominate con l’aiuto dello stato, il crollo dello stato farebbe trionfare la proprietà privata libera non quella creatosi con lo stato e per lo stato secondo me è importante anche non sottovalutare queste considerazioni, la stessa cosa vale per il mercato è questo quando intendo che l’anarchia di mercato porterebbe alla fine del capitalismo ( che è un coorporativismo statalista) e al trionfo del libero mercato.

  8. z3ruel
    Maggio 10, 2010 alle 11:10 PM

    ” ”Mi pare evidente che solo il concetto di realtà negativa, la “libertà da”, sia compatibile con la non aggressione. ”
    potresti illustrami meglio il perchè di tale conclusione? ”

    Perché se io accampo un diritto positivo a caso (“il diritto alla casa”, ad esempio), necessariamente finisco per aggredire un altro individuo. Nell’esempio fra parentesi io pretendo di avere una casa gratis e lo stato od un altro agente coercitivo ti ciula i soldi per pagarmi l’alloggio a babbo morto per me. Insomma, la “libertà di” è legittima fino a che non va a sbattere con la “libertà da”. Io sono libero di pretendere ed ottenere qualcosa solo se non violo i diritti altrui, nell’esempio della casa posso accampare pretese solo se tu decidi volontariamente di offrirmi l’affitto.

    Comunque, ritornando alla discussione fra voi due, io da un po’ brancolo nel buio. Se è autoevidente il principio per cui ognuno è padrone di sé stesso, non è automatico che la proprietà sia per forza un’estensione di noi stessi. Se vogliamo è così, se no, no. Prima di Locke e delle sue giustificazioni morali l’istituto della proprietà privata già esisteva, e come notava Hume esisteva perché funzionava, secondo lui la si poteva anche considerare “naturale” ma solo perché in qualche modo era sopravvissuta alla selezione naturale delle convenzioni: era ed è l’unico modo per ridurre i conflitti per la gestione delle risorse che abbiamo a disposizione e di conseguenza strumento per produrre nuovi beni e servizi. Si può decidere di difendere il principio di non aggressione “semplicemente” perché a) si crede che ognuno è padrone del proprio corpo; b) la proprietà privata è fondamentale per mantenere la pace, ridurre al minimo i conflitti, ed avere una base solida per produrre beni e servizi, scambiarli e collaborare.

    Comunque, tutte ‘ste seghe mentali ce le facciamo noi nel 2010, ai tempi di Jefferson non c’era differenza fra giusnaturalismo, utilitarismo, consequenzialismo. E’ dura ad esempio giustificare moralmente la nascita della proprietà privata senza essere consequenzialisti: per Locke, come per Dom, la terra in principio era di tutti, per Rothbard era di nessuno (principio presente sia nel diritto romano che nella common law inglese). Anche a me parrebbe illogico pensare che ciò che non è mai venuto in contatto con un essere umano, o ciò su cui nessuno ha mai rivendicato un diritto di proprietà, sia di tutti; questo vorrebbe dire che per poterlo utilizzare dovrei chiedere il permesso a tutto il resto della popolazione terrestre, come se tutti gli altri esseri umani fossero, assieme a me, azionisti di pari quota dell’x bene non ancora rivendicato. Questo comunque è un ragionamento consequenziale. Locke, come detto non la pensava così, e Rothbard ha pensato bene di non seguirlo, altrimenti tutto il suo castello avrebbe avuto fondamenta morali poco solide. (continua)

  9. z3ruel
    Maggio 10, 2010 alle 11:13 PM

    Vi copio incollo un pezzo che avevo postato su The Diamond Age tratto da “Scelta, contratto, consenso” di Anthony De Jasay:

    Prima di Locke, si sosteneva che, dato che contestare il titolo del primo occupante (della terra) avrebbe portato a una battaglia senza fine su chi “davvero” avrebbe dovuto aver quel titolo, la gente era arrivata poco a poco ad accettarlo come un diritto naturale, giustificando allo stesso modo in cui erano giustificati i diritti di proprietà validamente trasferiti da precedenti possessori del titolo. Locke pensava invece di avere bisogno di una difesa più profonda e moralmente più solida della genesi di questo diritto di proprietà, e di poterla fornire combinando la prima occupazione con due famose clausole aggiuntive. Affinché il primo occupante avesse un valido diritto al titolo di proprietà, egli doveva, per renderla sua, “mescolare il proprio lavoro” con la terra, in modo tale che “beni sufficienti e altrettanto buoni” rimanessero per chi arrivava dopo. La seconda clausola può essere accantonata in quanto impossibile da soddisfare, a parte in situazioni di fantastica abbondanza, nelle quali i diritti di proprietà sono comunque irrilevanti, e quindi non importa su che basi siano validi. In uno stato di abbondanza temporaneo, come all’inizio di una corsa per la terra sulla frontiera della colonizzazione, il primo occupante deve supporre che prima che la corsa alla terra sia finita, non rimarrà più “abbastanza terra e altrettanto buona” per gli altri, e di conseguenza non giustificherebbe più il suo titolo; mentre in uno stato di abbondanza permanente il problema semplicemente non si pone. La clausola del “mescolare il proprio lavoro” ha la debolezza congenita di tutte le teorie dell’acquisizione giustificata e del valore, basate sul lavoro. Per quanto divertente possa essere analizzarle, per il momento è sufficiente osservare una cosa banale, e cioè che far dipendere la giustificazione dell’origine della proprietà sia sul principio del “è di chi lo trova” sia sul fatto di lasciarne abbastanza per gli altri, infine, sul lavoro impiegato per ottenere quella proprietà indebolisce, invece di rafforzare, lo status morale di qualsiasi distribuzione di proprietà, in quanto è probabile che qualsiasi distribuzione violi almeno una di queste tre condizioni. Ciò crea un vuoto, che altre teorie della distribuzione, “più giuste”, possono riempire. L’avvento di queste teorie ha svariate e ben note conseguenze politiche. I riformatori sociali, non sorprendentemente, giudicheranno tali teorie considerandole giuste “a conti fatti”. Queste teorie richiedono continuamente nuove e arbitrarie distribuzioni di diritti di proprietà fra le persone, e di certo non sono rigorosamente liberali. In virtù del principio di Priorità, invece, il liberalismo rigoroso evita di mettere in discussione l’allocazione iniziale delle proprietà. A coloro i quali fanno correttamente notare che questo significa lasciare la caso le posizioni iniziali, e che continuano affermando, cosa più contestabile, che il caso è ancora meno giusto dell’arbitrio politico, si può solo rispondere che questa non è una questione a cui si possa applicare propriamente la categoria della giustizia. tale categoria riguarda infatti soltanto i diritti e le loro conseguenze, e appare piuttosto immotivato (o motivato da un appello a una metafisica piuttosto peculiare) asserire che esistono comunque diritti di proprietà, precedenti alla sua distribuzione iniziale, cui bisogna dare effetto affinché la distribuzione stessa sia giusta.

    6) Tutta la proprietà è privata

    E’ bene chiamare questo principio “principio di Esclusione”, poiché permette ad un individuo, legittimamente investito di un diritto di proprietà, di escludere gli altri sia dalle decisioni inerenti al diritto stesso sia dalle loro conseguenze. Il diritto di proprietà non è quindi “nostro”, né può venir condiviso secondo le pretese “su ciò che dovrebbe essere”, bisogni o voti. Il principio contraddice la credenza per cui il titolare della proprietà abbia qualche obbligo nei confronti dei non-titolari, e debba lasciarli partecipare a decisioni relative alla sua proprietà o ai benefici che essa comporta. Se obblighi di questo genere esistono, l’onere della prova è su chi ne sostiene l’esistenza.

    (…) La proprietà collettiva implicherebbe che alcuni o tutti i diritti relativi all’uso e alla disposizione di certi beni appartengano congiuntamente a un gruppo di persone, ma senza che siano spartiti fra i membri del gruppo stesso. (…) Perché quindi pretendiamo di riservare il nome di “proprietà” al possesso individuale e di negarlo al possesso collettivo? E perché insistiamo sul fatto che, propriamente parlando, none esiste nulla come una proprietà “nostra” e che la proprietà non ha obblighi sociali? La ragione fondamentale è che, dopo aver debitamente soppesato tutti i dubbi che i teorici del diritto hanno gettato sull’esatto significato della proprietà, rimane un elemento residuale irriducibile che, se non altro, costituisce possesso: cioè il diritto di decidere a proposito dei diritti relativi ai beni posseduti, vale a dire a proposito dei diritti di uso, usufrutto e alienazione dei beni in questione. (…) i proprietari collettivi non sono in quanto tali capaci di prendere decisioni. Solo gli individui ne sono capaci, e quelli che lo fanno (sia singolarmente, sia riuniti in coalizioni o maggioranze), decidono per tutti all’interno della collettività. La scelta collettiva, la scelta fatta a nome di un gruppo, è sempre scelta “politica”, eccetto nel caso estremo dell’unanimità; e tale è, per la stessa ragione, la proprietà collettiva. Ancora per la stessa ragione, il possesso collettivo vìola il fine ultimo della proprietà, che è attribuire agli individui la sovranità sull’impiego delle risorse scarse. La sovranità su alcuni tipi di decisioni può venir delegata in modo revocabile, o anche trasferita definitivamente, ma non può essere condivisa, e questo è il motivo per cui non esiste una vera proprietà che, una volta tolti gli agenti, i delegati e gli intermediari, non sia mia, tua o sua. (…) I fondi comuni, il verde pubblico, le proprietà del comune, e le proprietà dello Stato eludono la condizione essenziale affinché la proprietà soddisfi le sue due funzioni, quella morale e quella strumentale, cioè la condizione per cui la responsabilità delle decisioni (anche quelle delegate) relative all’uso e al trasferimento dei diritti di proprietà debba ricadere sulla stessa persona che sopporta i costi e riceve i benefici di quelle decisioni.

    (…) La pratica della proprietà privata risale almeno ai tempi in cui le famiglie si ritirarono in case diverse e questa usanza, a sua volta, è antica quanto l’homo sapiens. La proprietà privata dei mezzi di produzione, inclusi i grandi oggetti indivisibili come le navi e i terreni da caccia, veniva largamente adottata da molti popoli di cacciatori-raccoglitori. Da allora fino ai giorni nostri, sia la proprietà privata sia la proprietà collettiva continuano a vivere l’una accanto all’altra, aumentando o diminuendo la loro proporzione relativa, spesso per cause poco chiare. E’ probabile che meno proprietà privata sia un ostacolo allo sviluppo, di più sia un aiuto. Ma non esiste traccia di una relazione causale nell’altro senso, con stadi di sviluppo storico che determinano il sistema di diritti di proprietà adatti all’epoca in questione. Le cause dell’origine della proprietà derivano dalle relazioni logiche che sussistono fra persone, atti e cose. Queste relazioni sono astratte, e la loro interazione, come gli incentivi e le resistenze che provoca, non dipende dal tempo e dal luogo. (…) Non significa che ogni sistema di diritti di proprietà è altrettanto adatto e intrinsecamente degno di rispetto e protezione quanto un altro, e che spetta alla “società” scegliere quale dei due proteggere e sviluppare. Questa, in fondo, era l’originale proposta utilitarista, alla quale ormai tende anche il liberalismo debole: la scelta collettiva è libera di imporre tutti i limiti che ritiene opportuni alla scelta individuale per mille motivi, il più chiaro dei quali è che gli individui non sono capaci di proteggere la loro proprietà l’uno dall’altro e possono quindi godere solo dei diritti che la “società” è disposta collettivamente a garantire. E’ impossibile ripetere abbastanza spesso come questa visione sia sbagliata.

    -(…) La storia ci offre prove sufficienti del fatto che ordinamenti spontanei e decentralizzati siano in grado di proteggere la proprietà sostanzialmente nel migliore dei modi possibile; e il fatto che tali ordinamenti non possano invece farlo in presenza dello Stato è una tautologia, dato il monopolio della coercizione di quest’ultimo, e, come tutte le tautologie, non dimostra nulla.

    -(…) tale visione è sbagliata perché fraintende il significato morale della proprietà privata come relazione diretta fra persone, atti e risorse di valore. Questa relazione, che consiste nell’identità trinitaria della persona che è responsabile delle scelte, di quella che ne sopporta i costi e di quella che ne ottiene i benefici, risulta distrutta nel momento in cui la proprietà in questione è posseduta collettivamente. Questa rottura vìola il requisito secondo il quale le persone devono essere pienamente responsabili per le conseguenze delle proprie scelte. (…) Quindi, la “società” non dovrebbe decidere a favore della proprietà privata o di quella collettiva, o anche di una qualche illusoria via di mezzo fra le due, indipendentemente dai fini per cui la proprietà stessa è stata ideata, in breve, ignorando il “significato ultimo” della proprietà.

    Accade, non certo casualmente, che il contenuto morale della proprietà abbia un ulteriore effetto collaterale. Quando il requisito morale intrinseco della proprietà individuale è soddisfatto, risultano soddisfatte allo stesso tempo certe condizioni che si rivelano necessarie per una efficiente allocazione delle risorse: al proprietario conviene infatti allocare le risorse in modo ottimale, e de non lo fa subisce un danno. L’uguaglianza fra tutti i profitti e tutti i costi futuri in un regime di concorrenza perfetta potrebbe essere un obiettivo impossibile, non fosse altro perché esiste solo come aspettativa nella mente delle persone. E, tuttavia, nel caso della proprietà privata, ci sono almeno forti incentivi a perseguire quell’uguaglianza prima di qualsiasi altro obiettivo. In un regime di proprietà collettiva, sono altri gli obiettivi razionalmente perseguibili per le persone che si trovano ad essere responsabili di sceglierli. (…) Lo stesso argomento pesa molto meno all’interno della teoria liberale rigorosa, poiché quest’ultima è solo indirettamente preoccupata della performance economica, che viene affidata alle scelte individuali. Ciò nonostante, è confortante che ciò che soddisfa i requisiti morali del liberalismo rigoroso risulti poi anche essere una condizione necessaria per l’efficienza economica.

  10. Maggio 11, 2010 alle 2:32 PM

    @Z:

    Nel folklore popolare si usano spesso espressioni come: “mi è costato un occhio della testa” o “ci è voluto il sudore della fronte”. Io credo che queste espressioni non siano casuali, ma siano orientate a definire quella che è una componente biologica degli esseri umani: incorporare la realtà materiale dentro sè stessi, violando il limite tra materia inanimata e biologica (transumanesimo).

    Dunque, quando io recinto un terreno, ci metto parte del mio corpo, nel senso che consumo sudore, energia, tempo che potrei dedicare ad altro. Alla fine dell’opera, io sono più vecchio e più stanco, magari mi sono infortunato nel lavoro. Se mi spezzo la schiena per costruire un muro o recintare un terreno, io ho messo parte del mio corpo in questo. Ancora, se per costruire una piramide perdo una gamba nei lavori, io posso dire che la mia gamba si è convertita in parte della piramide.

    Dunque, se arriva Tizio e mi ruba la piramide o il terreno recintato, io ho perso parte di me stesso, un po’ come se Tizio venisse da me e mi prendesse a legnate sulla schiena, mi tagliasse una gamba o mi facesse leggere inutilmente 2000 pagine di un manuale universitario.

    Tutto sta nell’abbandonare l’idea che esista una reale differenza tra il corpo umano e la realtà materiale che ci circonda e abbracciare il concetto di mente estesa.

  11. z3ruel
    Maggio 11, 2010 alle 5:17 PM

    Che ci sia una componente biologica insita nella natura umana che abbia contribuito alla creazione dell’istituto della proprietà privata pare anche a me chiaro, come è chiaro che nell’evoluzione dell’interazione fra individui la bontà di tale istituto si sia palesata. E’ anche per questo che la giustificazione morale oltre ad essere impossibile da fondare logicamente (Hume docet) mi pare superflua (d’altronde è attaccabile anche qualsiasi altra teoria della giusta creazione ed acquisizione della proprietà alternativa fondata su basi morali). A livello di sensazioni e di quel che voglio accettare mi sta bene quanto hai scritto sopra, ma sinceramente non trovo così importante il fatto di doversi fare uscire il sangue dalle orecchie per risolvere il rebus “la proprietà privata è giusta?”. Poi, come spiega bene De Jasay, e come spiegava anche Mises, la proprietà deve esistere per poter far sì che gli individui collaborino fra loro pacificamente ed interagiscano con quel che li circonda, ed il concetto di proprietà collettiva è vuoto.

  12. Domenico Letizia
    Maggio 11, 2010 alle 8:06 PM

    ”Poi, come spiega bene De Jasay, e come spiegava anche Mises, la proprietà deve esistere per poter far sì che gli individui collaborino fra loro pacificamente ed interagiscano con quel che li circonda”

    Su questa considerazione non vi è alcun dubbio neanche filosofico…

  13. Maggio 12, 2010 alle 5:49 am

    Allora ciao a tutti e in primis a Domenico, la questione posta da Domenico rientra un pò nel dibattito tra diritto positivo e diritto negativo (ergo Bobbio vs Berlin).
    Il tuo articolo l’ho compreso e ovviamente posso anche in linea di approccio empatico comprenderlo nella sua critica però valuto entro un piano di principi corretta la versione di Z3 (quella di Jinzo mi pare troppo moraleggiante e assoluta nella sua spiegazione, insomma poco sexy ;), ovviamente con questo non lo voglio criticare ma semplicemente io avrei usato altre motivazioni almeno nel primo post), nel senso che il diritto positivo non è positivo nella sua consequenzialità di conseguenze.
    Mi spiego parlare di diritto positivo come un dato di giustizia porta inevitabilmente (come ha sottolineato Z3) a definire la libertà come uno spazio per l’aggressione e la rivendicazione sociale di una giustizia o disuguaglianza in essere benchè di fatto non esista nessuna legge o nessun dato di buon senso che imponga all’uomo di essere uguale ad un altro simile.
    Mi spiego con un esempio economico e uno fisico-biologico rispettivamente:
    1) Una persona grazie alla sua creatività e alla sua capacità, o più in generale alla sua laboriosità riesce a guadagnare e risparmiare un gruzzoletto di denaro, è bravo in quel che fa e può quindi avere un rapporto spese entrate tale da consentirgli l’acquisto di una casa di proprietà e di una macchina berlina e perchè no andare pure in vacanza alle Maldive una volta all’anno.
    Quel che ha realizzato è frutto del suo lavoro e ovviamente nessuno ha il diritto di rivendicarlo dato che il merito è parte della sua fatica e della sua vita.
    Ma ammettiamo che un suo vicino o più in generale un suo concittadino sia un fannullone, una persona priva di ingegno e sostanzialmente apatica nel suo lavoro e nella sua vita.
    Questi non riesce a sbancare il lunario e vive entro la soglia di povertà nonostante sia entro una (futuribile) società di merito dove chiunque può fare carriera se si impegna.
    Ma il pelandrone non ha voglia è indolente individualmente, però in quanto osservatore ed essere nella società prova più che una voglia di riscatto una invidia, una vendetta o un rancore sociale per gli stili di vita altrui diversi dai propri.
    Cosa fa allora un pelandrone?, rivendica dei diritti positivi quali diritti per la propria persona allo scopo di assomigliare o ridurre il benestante alla sua condizione sociale.
    Tali diritti positivi servono al parassita a migliorare la sua posizione sociale e ovviamente a eguagliarlo idealmente al pari del suo vicino o concittadino ricco.
    Ma c’è un problema?.
    Mentre il cittadino operoso riesce a sbancare entro attività consensuali e tese al mutuo scambio, il cittadino invidioso e sfaticato non riuscendo a produrre niente di suo pretende di ottenere lo stesso del suo modello sociale.
    Ecco allora che una “libertà di” diventa in realtà una forma di aggressione (rapina, estorsione, violenza, rapimento o furto diretto) sul piano non solo morale ma pure materiale e pragmatico.
    Dato che per ottenere un raggiungimento dello status del suo obbiettivo questi accamperà richieste di denaro, e come si sa il denaro non cresce sugli alberi e molto spesso questi è troppo fifone/sfaticato per rivendicarlo direttamente chiederà a delle organizzazioni di redistribuzione sociale collettive e coercitive (Stato o mafie) di fornire adeguati mezzi al pari di quello ricco.
    Ora cosa fa una organizzazione di redistribuzione per poter dare (nelle migliore delle ipotesi) ciò che accampa lo sfaticato: 1) stampa denaro
    2) tassa il tizio benestante o espropria il capitale e l’attività del benestante cedendola al povero.
    Appare evidente che l’azione positiva in realtà leda un diritto e una libertà altrui coercitivamente, appare evidente poi un’altra conseguenza dell’azione di rapina statale: il benestante diventa più povero a danno della coppia Stato-parassita.
    Il problema però è che attuata la rapina lo Stato pretende parte del bottino per sè, come minimo per il disturbo come massimo per manifesta potenza anche rispetto al parassita questuante.
    Il povero potrebbe ottenere parte del bottino sottratto ma questo è sempre meno rispetto alle sue esigenze e standard di vita desiderate.
    Ergo cresce in lui l’invidia e la rabbia, ma non potendo o non volendo prendersela con lo Stato, aumenta il livore nei confronti del benestante defraudato (ritenendolo molto spesso addirittura in combutta con lo stesso Stato!!!).
    Il povero entro la sua invidia sociale parassitaria ritiene il ricco sempre più ricco rispetto al buonsenso delle cose o più in generale rispetto alla rapina subita fiscalmente da questi.
    Risultato: Il povero sarà sempre povero, il ricco diventerà sempre più povero e lo Stato mano a mano diverrà ricco e potente giostrerà a seconda degli interlocutori entro la richiesta di ridistribuzione (comunismo) o di difesa del capitale (corporativismo) tra la gente sua suddita.
    Da parte del benestante, il quale ha ormai capito come lo Stato possa diventare un utile strumento di difesa e non solo d’offesa personale si instaurerà un rapporto di clientelismo e di consociativismo nel tentativo di limitare l’azione del questuante o per produrre vantaggi diretti o strumentali dall’azione dello Stato.
    Ovviamente il fatto che lo Stato difenda l’uno o l’altro non evita la rapina e la tassazione, cambia l’approccio e la visione empatica, il ruolo e il significato attribuito nel suo atto da parte dei sottoposti.
    Non la sua illegalità o inutilità di fondo.
    Il caso Greco è esempio classico, lo Stato è divenuto strumento di redistribuzione entro un paese da terzo mondo, a seguito delle richieste della gente di aumentare il loro reddito e il loro benessere.
    Anche ora che il crack è arrivato, i parassiti chiedono allo Stato protezione, assistenza e redistribuzione.
    Tale azione “positiva” ha già provocato tassazione, indebitamento e ovviamente ora sta provocando odi e tensioni sociali al suo interno.
    I ricchi in Grecia equivalgono poi ai politici (ma questo dapperttutto proprio per quella possibilità di tenersi parte del bottino), in questo caso coloro che vengono derubati inconsapevolmente sono quegli stessi poveri che pensavano di arricchirsi mediante assunzioni, clientele e corporativismi contro presunti nemici.
    Ora ne pagano con gli interessi le conseguenze.
    La cosa appare un pò come la favola della cicala e della formica di Mandeville.
    2° esempio è il dato di natura.
    Ogni individuo è unico, nessuno è uguale ad un altro (neppure due gemelli a livello genetico e biometrico), ergo nessuno può pretendere di derubare il talento o le capacità fisiche di un altro, solo per acquisirne o potenziarsi a scapito degli altri.
    Non si può pretendere che tutti siano fenomeni, nè che tutti siano simili, la natura fa il suo corso casuale e ovviamente favorisce a livello biologico, biometrico e cognitivo taluni piuttosto che tal’altri.
    Non si può penalizzare o appianare tali differenze naturali rendendo tutti delle persone handicappate o talentuose (entro uno spettro di possibilità di normalità diffusa).
    La questione del corpo e della proprietà è fondamentale proprio come non aggressione, intesa come constatazione che uno talentuoso lo è per nascita o entro certe condizioni naturali o favorevoli.
    Nessuno ci può fare nula, non si può ridurre il talento o voler che gli altri (magari più talentuosi di noi) gli venga impedito nella loro espressione di talento e creatività allo scopo di tutelare i presunti diritti dei più deboli (o incapaci).
    Questo non ha nulla a che fare con il diritto naturale e ovviamente neppure con una visione positiva (in senso morale) a conti fatti.
    Allo stesso modo le condizioni di opportunità di base devono essere le più aperte e libere possibili per poter emergere.
    Ergo se la visione naturale è di per sè discriminante a partire dal nostro corpo e dalla nostra fisicità allo stesso modo anche i nostri rendimenti, prestazioni, capacità e qualità di modifica della realtà sono variabili e disomogenei.
    Questo giustifica la proprietà e ovviamente la sua inviolabilità naturale dato che lockianamente risulta parte di tale opera della creazione e ingegno umano su un piano utilitario e pure giusnaturale.
    D’altronde uno dei tabù più ovvi è non uccidere o non cibarsi di altri umani e questo per un ovvio motivo che nulla ha in sè per sè di religioso, quanto di opportunità e rischi corsi convenzionalmente.
    Il problema allora della critica alla proprietà è di fatto un non problema (allo stesso modo le regole basilari che ne derivano).
    Gli anarcocapitalisti e i libertari non giudicano giusto o sbagliato su un piano di moralità giustizialista-economica ma su un piano di legittimità e opportunità che tale condizione si riveli la più soddisfacente tra le parti entro il rapporto di domanda e offerta.
    Mi pare evidente che in una tassazione non ci sia un equo compenso a priori tra chi viene tassato (il tartassato) e il denaro redistribuito tra Stato e parassiti (il cosiddetto benefattori e i beneficiari).
    La questione del mercato e delle sue regole non è un piano preordinato entro una visione libertaria mainstream (tantè che esistono varie scuole libertarian), entro quella anarcocapitalista ovviamente la peculiarità viene accettata come basilare e condizione specifica di rappresentazione di una propria equità nello scambio (non necessariamente dello scambio).
    Si intenda quindi una equità che considera lecito il profitto, ergo una equità di trattamento e compensazione che al contempo vede intriseco il dato di guadagno e plusvalore (per dirla nominalmente “alla Marx”).
    Il libertarianismo è “libertà da” ma al mio parere è pure per certi versi “libertà di” maggiore di qualsiasi scenario coercitivo o di diritto positivo, ovviamente il tutto entro però i limiti di una libertà lockiana di non aggressione, di libero scambio e di libero mercato.
    Dato che la libertà assoluta non esiste di per sè (non solo entro un dato di società ma anche entro il piano individuale o atomistico, vedi esempi proposti del deserto o dell’eremita), i libertari valuteranno necessario definire un piano concettuale di principi (non necessariamente la loro rispondenza o correlazione pratica derivante sebbene se ne interessino sovemte a livello futurologico) tali da permettere una definizione utilitaria o a mio parere pure convenzionale di tali scambi.
    Il problema del diritto di proprietà va allora inteso come questione non collettiva o universalistica dato che giustamente come ha fatto notare Z3 non si può pretendere nè l’unanimismo nè la visione consensuale per l’uso di una risorsa o di una proprietà.
    Tral’altro ritenere la terra o una risorsa come una proprietà di tutti, pregiudica ogni valutazione di sforzo creativo e di lavorazione di tale dato reale da parte dell’operatore, ergo non solo si colpisce il suo talento, ma si mette in dubbio pure la proprietà e quindi il suo diritto al profitto/benessere consequenziale entro il reciproco/mutualistico dare e avere (quale è il libero mercato).
    Inoltre il fatto che sia di tutti è un controsenso dato che nulla dimostra come questo “tutti” abbia realmente partecipato alla realizzazione del bene (vedi reti o centrali energetiche), inoltre entro una risorsa naturale non si comprende con quale diritto i “tutti” possano accampare un diritto alla creazione superiore e più coerente rispetto all’individuo (e in particolar modo alle sue istanze di proprietà-lavoro lockeiano).
    Ritenere universalmente il diritto su un bene come “comune”, non soltanto pregiudica tale passaggio a livello aprioristico in termini economici, ma tende a negare di fatto una consequenzialità temporale costituendo la premessa per aggressioni alle proprietà allo scopo di instaurare una visione collettiva e coercitiva retroattiva ed escatologica a prescindere dalla storia e dalle sue stratificazioni passate.
    Il libertario non è coercitivo in quanto non lo può essere nel porre freno e rimedio ad una azione coercitiva quale è quella statale o quella avvenuta nel passato.
    Certo la violenza in quanto tale va condannata, ma su un piano di principi e valori il libertario agisce non con la volontà di imporre una propria volontà o sanzione al parassita, quanto semmai quella di definire un campo di azione limitato entro il quale la propria libertà e la libertà altrui non deve e non può essere violata in termini reciproci e chiari.
    Se il parassita pretende qualcosa che non gli appartiene, non può certo fare la vittima a fronte non della mera difesa ma del ripristino da parte del libertario di una condizione di natura (molto spesso derivante da responsabilità individuali).
    Il libertario allora sfugge dalla classica dialettica della hegeliana lotta tra capitale e lavoro, in quanto entrambi sono semmai vittime di un abuso definito e foraggiato ai loro danni dallo Stato (vedi Grecia).
    Il libertario certamente potrà proporre come nel caso degli agoristi una propria visione di lotta di classe parassiti-produttori, ma tale lotta in realtà non ha nulla di coercitivo o di impositivo, quanto semmai porre una eraclitea forma di riequilibrio di un ordine naturale e spontaneo antecedente all’azione coercitiva tra le parti.
    Il dato di giustizia considerato da molti pensatori collettivisti e statalisti come vero e superiore alla libertà (molto spesso senza dimostrare nè l’assunto di giustizia, nè la sua superiorità) tende ad essere quello si, una estensione su un piano immanenente e materiale ben al di là dei limiti dei diritti.
    Non a caso Rawls, Marx o Keynes propongono versioni che guardano al fine a partire dall’invidia o da preconcetti infondati (come Nozick, Mises e Rothbard hanno dimostrato) in quanto promotori di situazione non spontanee e contro il diritto naturale (antecedente ad ogni legge umana).
    Il problema allora è quanto sia legittimo credere in una giustizia laddove il concetto di giustizia non è più un arbitrato ma tende ad essere suffragata e sostenuta in quanto azione apportatrice di una visione forte e dominante.
    Insomma il problema degli statalisti è che per loro il “fine giustifica sempre i mezzi” senza accorgersi che mirando al fine questi se ne allontanano paradossalmente, arrivando molto spesso ad adoperare solo i mezzi per puro scopo ricreativo o molto spesso criminale.
    Come vediamo anche in questi giorni….
    Ciao da LucaF.

  14. Angelo
    Maggio 13, 2010 alle 7:06 am

    Salve a tutti,

    mi permetto solo di fare una considerazione. Mettiamo che c’è un ampio pezzo di terra di demanio comunale, ampie famiglie di contadini vi lavorano e si sfamano. Un bel dì quel demanio viene messo all’asta ed all’asta ovviamente un riccone riesce a battere l’offerta dei contadini. Questa si chiama eversione dalla feudalità. Il 1. risultato è che chi lavora non ha la terra e diventa proletario. Il 2. risultato è che i contadini di tanto in tanto insorgono e tagliano la testa a qualche proprietario che li ha espropriati. Il 3. risultato è che il riccone che si lamenta delle tasse dello Stato è ben disposto a tassare i contadini. La proprietà è nata così, niente fannulloni e niente gente operosa. Mi potreste aiutare a capire dove sta il bene e dove sta il male?

  15. Domenico Letizia
    Maggio 13, 2010 alle 10:29 PM

    Ciao Angelo sia per cercar di risponderti che per incrementare il dibattito, lascio questo pezzetto proprio sulla proprietà di Brad Spangler:

    Riguardo la proprietà, come Proudhon, io distinguo tra proprietà nel senso di un ingiusto stato privilegiato e proprietà nel senso del verificarsi di un fenomeno etico sostenuto da un ampio consenso. La proprietà acquisita attraverso la produzione o il commercio sarebbe difendibile grosso modo come si potrebbe difendere il “possesso” in un sistema di proprietà usufrutto. Questa teoria della proprietà, riferita alla “proprietà privata”, attualmente fornisce le basi per una rivoluzionaria redistribuzione della proprietà, da una plutocrazia alleata con lo stato, ai lavoratori.
    Con particolare attenzione ai conflitti dovuti alle rivendicazioni tra proprietari e lavoratori, lasciami dire che io mi immagino il processo di rivoluzione come l’allacciamento tra un sistema di leggi non statale e la sicurezza. La natura di questa legge tenderebbe in favore di una redistribuzione selettiva della proprietà dai plutocrati alleati dello stato ai lavoratori, perciò la redistribuzione diverrebbe una affermazione dei diritti di proprietà piuttosto che una loro negazione. D’altra parte, solo perché qualcuno è ricco non vorrebbe dire che è giusto togliergli i suoi beni. Piuttosto che giudicare la salute di una persona dalla quantità di beni in suo possesso, la sua proprietà sarebbe valutata metodologicamente (p. e. “Come l’hai acquisita?”) con i privilegi garantiti dallo stato valutati come mezzi criminali di acquisizione, vanificando così il titolo di proprietà garantito dallo stato.

  16. Maggio 14, 2010 alle 3:04 am

    @ Angelo.
    Concordo con l’acuta citazione di Domenico di Proudhon (il quale per l’appunto non criticava la proprietà in sè per sè come credono gli anarcocomunisti quanto semmai la proprietà del rentier).
    Non a caso analogo discorso lo pone pure Tocqueville nel suo libro la Democrazia in America quando parla della formazione delle terre libere dal processo di disgregazione dei latifondi dei rentier nella zona del New England nel corso delle generazioni quale base dello sviluppo e delle opportunità.
    Per certi versi Proudhon oggi giorno sarebbe contrario al diritto d’autore (diritto immateriale), non alla proprietà del bene in sè per sè, tanto per capirci.
    Inoltre Rothbard partendo dallo spunto lockeiano parla di proprietà legittima in quanto quella in grado di essere lavorata dall’uomo.
    Ergo come ho già scritto laddove l’individuo pone il suo lavoro al servizio della sua azione nella realtà in questo caso del terreno agrario.
    Tecnicamente è molto difficile che un proprietario sia anzitutto proprietario di grosse estensioni, inoltre senza un approccio di mercato e capitalistico è a maggior ragione molto difficile che questo terreno possa rivelarsi produttivo e redditizio nei costi e nelle spese.
    Quindi è probabile un qualche forma di affitto o di mezzadria.
    Ricordo come lo sviluppo delle rencizioni e della proprietà abbia permesso lo sviluppo del benessere nel medio-lungo periodo.
    http://it.wikipedia.org/wiki/Enclosures
    Comunque mi pare evidente come in una transazione economica quale è l’acquisto del terrno chi è proprietario ha ragione.
    Per quanto riguarda le tasse, mi pare alquanto stereotipata la questione che il proprietario non voglia le tasse per far pagare queste ai contadini.
    Non che non possa accadere ma se accade rientra nella descrizione sopra da me fatta di collateralismo dello Stato quale forma di corporativismo.
    Ciao da LucaF.

  17. Angelo
    Maggio 14, 2010 alle 7:17 am

    Mi spiego meglio, il senso del mio intervento era orientato a riportare su questioni pratiche i termini del discorso sulla proprietà. Spolverare le tesi sulla società perfetta e su quel che sarà la rivoluzone o azzardare previsioni sull’utilità o meno delle enclosures a cosa serve? Non sappiamo come sarebbero andate le cose senza la recinzione e la fine degli usi civici, nè si è mai realizzato un metodo alternativo di privatzzazione dei terreni demaniali. Questo è il dato di fatto, così come è un dato di fatto che la nascita della proprietà privata ha sottratto la terra a chi la lavorava per consegnarla agli speculatori, ha soggiogato la campagna alla città, ha creato fame, miseria, concentrazioni di potere politico (ricordo a tutti che il sistema politico fino a meno di cento anni fa era legato al censo, cioè alla rendita fondiaria, così come vi ricordo che il parlamento di proprietari italiani nel 1869 imponeva la tassa sul pane, il macino e il raccolto e questa tassa è restata in vigore per circa 30 anni), e ovviamente poi è nata la grande migrazione di contadini, spogliati dei propri averi, verso le Americhe. La proprietà è nata così, ha poco senso il discorso sulla libertà dell’individuo in questo caso perchè erano individui sovrani anche i contadini che venivano espropriati. Io dico che alla prova dei fatti, quelli certi e acclarati, quelli storici, tutte le teorie sui fannulloni, le storie sulle formiche e le cicale e tutte le belle parole sulla proprietà che nasce dal lavoro cadono distrutte.

  18. Maggio 15, 2010 alle 5:50 am

    @ Angelo
    Guarda che sappiamo come sarebbe andata senza l’enclosures, sarebbe andata come in Italia meridionale dove il latifondo non recintato, senza mezzadria ha provocato una agricoltura estensiva dannosa a livello produttivo e di rendimento e in termini di impatto geomorfologico sul territorio.
    Non a caso il latifondo è rimasto in Italia a lungo inalterato dando lavoro servile ai contadini non proprietari della terra con soddisfazione prima dei baroni e in seguito ai mafiosi e ai politici.
    L’emigrazione di parte della popolazione del mezzogiorno nell’Ottocento e nei primi del ‘900 oltreoceano o nelle colonie era dovuto proprio a questo.
    Non a caso dove vi è assenza di proprietà l’abuso predomina molto spesso con l’interessata complicità dello Stato e delle istituzioni.
    Ciao da LucaF.

  19. Angelo
    Maggio 15, 2010 alle 8:05 am

    A me ora non interessa parlare di Sud, al centro del dibattito c’è la proprietà, il suo carattere e la sua origine storica, mi limito solo a dire che, in verità, io parlavo proprio del Mezzogiorno, dove l’eversione dalla feudalità è iniziata nel settecento (i contratti di mezzadria erano, ahimè, diffusi già dal 1600), poi si è fatta legge col decennio francese e si è conclusa ad unità d’Italia avvenuta, ed è nei decenni in cui i beni di pubblico e antico demani vennero messi all’asta che iniziò l’emigrazione. La nascita della proprietà privata ha tolto la terra ai contadini e li ha costretti ad emigrare, la stessa agrioltura intensiva è stato un danno perchè è, invece, proprio l’agricoltura estensiva che tende alla piena occupazione ed ha permesso lo sviluppo economico al Sud e la nascita di dell’industria manifatturiera. Con l’agricoltura estensiva l’offerta di lavoro bracciantile superava la domanda tenendo sempre bassi i salari, il surplus che ne derivava veniva investito negli impianti industriali. Però, come dicevo, a me non interessa parlare del Sud, è la nascita della proprietà privata in sè che ha creato un mondo di non proprietari e l’estensione inarrestabile dello stato nella società.

  20. Maggio 17, 2010 alle 4:59 am

    La mezzadria dell’Italia meridionale non ha nulla a che fare con la mezzadria sviluppatasi entro la visione della cascina e dell’azienda agricola intensiva nel nord Italia tra ‘600 e ‘700.
    La feudalità latifondista o mezzadria meridionale non ha nulla a che fare con la mezzadria protoindustriale del nord Italia e storicamente a sud si afferma fin dal periodo aragonese in Sicilia e Mezzogiorno.
    Ben prima del 1600.
    Scusa ma come potevano i contadini servi della gleba considerarsi proprietari se come tu dici il feudalesimo agricolo del mezzogiorno li faceva lavorare gratuitamente senza essere proprietari del terreno?.
    La cosa è un controsenso logico, dato che tu rivendichi al feudalesimo meridionale al contempo sia un ruolo contro la proprietà che un ruolo favorevole alla “proprietà” (o usufrutto) dei contadini.
    Con il feudalesimo i contadini lavoranti non erano proprietari di nulla ma servi, non mi pare fossero più liberi… nè in Russia nè in Sicilia.
    Poi dall’ulteriore tuo ragionamento capisco che sei un keynesiano che pretendi l’estensione agraria come scusa per dar da lavorare a più gente contro qualsiasi logica agricola ed economica contraria all’agricoltura estensiva e alla sua scarsa produttività e rendimento di questa.
    Non capisco come si possa condannare l’agricoltura intensiva che tutela meglio il territorio, permette al privato di coltivare e produrre di più e ovviamente consente a più persone di essere sfamate.
    Il tuo ragionamento oltre ad essere poco logico sul piano economico ed ecologico, mi pare anche poco logico sul piano alimentare dato che con un rendimento agrario minore tu vedresti i tuoi tanti lavoratori agrari morire di fame lentamente.
    Poi se a te piace questo…
    Non mi pare che al sud sia mai esistita in passato una industria manifatturiera, i primi tentativi furono fatti da Carlo di Borbone sul finire del ‘700 e non erano certo competitivi economicamente parlando a livello commerciale.
    Le uniche attività del meridione erano la pastorizia e il latifondo estensivo non vedo che collegamento vi sia tra l’agricoltura estensiva e il persunto surplus derivante in ambito industriale.
    A me paiono discorsi poco seri e logici che verrebbero smentiti facilmente anche solamente mediante una analisi fisiocratica dell’economia.
    L’ultima affermazione è poi un capolavoro di controsenso dato che la proprietà è l’opposto di Stato quindi è semmai dove lo Stato ha eliminato o ridotto gli spazi di proprietà che si è potuto affermare.
    Non a caso le leggi italiane tutt’ora in vigore sono favorevoli in alcuni casi all’esproprio della proprietà privata per fini collettivisti pubblici di Stato.

  21. Domenico Letizia
    Maggio 17, 2010 alle 11:24 am

    ”Poi dall’ulteriore tuo ragionamento capisco che sei un keynesiano”

    Luca questo posso smentirlo di persona, conosco personalmente angelo ed è affascianto dalla cultura libertaria.
    appena angelo sarà su questo blog spero dirà la sua.

  22. Maggio 17, 2010 alle 8:02 PM

    @Domenico
    “proprio l’agricoltura estensiva che tende alla piena occupazione ed ha permesso lo sviluppo economico al Sud e la nascita di dell’industria manifatturiera.”

    L’agricoltura tende alla piena occupazione e viene da Angelo portata avanti quale ideale e giusta forma di coltivazione (la cosa è evidentemente keynesiana sebbene possa essere al giorno d’oggi pure noglobal o nazicomunista, per dirla alla fidenato 😉 ), qualsiasi libro di geografia storica o di storia dell’agricoltura (anche i più sinistrati) dimosterebbero come lo sviluppo del sud non ci sia mai stato proprio perchè a differenza della zona padana non si è mai realizzato un sistema agricolo a capitalizzazione di tipo intensivo (con canalizzazioni e bonifiche) in mano a piccoli proprietari terrieri.
    La tesi di Angelo è che la proprietà sia portatrice a prescindere della perdita della sovranità del “diritto di” coltivare sul territorio da parte dei contadini, in realtà tale “diritto di” dato dal feudalesimo a tali soggetti è in realtà un servilismo della gleba o corveè senza possesso della terra lavorata e senza alcuna garanzia di permanenza o usufrutto duraturo da parte del latifondista (barone) vero proprietario dato ai lavoranti.
    Io ho compreso questo dal suo post, ovviamente attendo ulteriori precisazioni per rivedere eventualmente il mio giudizio.
    Ciao da LucaF.

  23. Angelo
    Maggio 18, 2010 alle 6:54 PM

    Ciao ragazzi, rispondo solo ora perchè sono appena ritornato dalla Catalunya. Non mi va di parlare di cosa fosse il Sud della penisola italiana nel ‘700, probabilmente trovi poco logiche le mie idee perchè parti da conoscenze scolastiche menzognere sulle reali condizioni economiche, sociali e politiche nel Regno delle Due Sicilie prima e subito dopo l’unificazione. “Non mi pare che al sud sia mai esistita una industria manifatturiera” è una frase assai grossolana, ma nei prossimi mesi, dato che ci apprestiamo a festeggiare in modo turbolento il 150* dell’unità, sicuramente tv e giornali daranno a tutti la possibilità di approfondiere questo argomento e forse qualcuno si ricrederà. Da parte mia, a guisa di benevola presentazione, mi interesso di ricerche d’archivio in merito ai fenomeni di brigantaggio, insorgenze e rivolte contadine al Sud e guardo con interesse al libertarismo perchè, da napoletano, propendo per una soluzione federale che metta al centro l’individuo e non lo stato. Detto questo, la mia tesi è anti-tesi nel senso che a me interessa l’aspetto pratico e nella pratica la proprietà privata, come ogni altra soluzione, può rivelarsi buona o no o buona per certi aspetti e negativa per altri. Credo pure che ogni lucida e feconda idea smetta di essere tale quando erige feticci e dogmi, per questo il mio intervento era un invito a misurarsi col caso pratico e senza generalizzazioni.

  24. Ingmar
    luglio 6, 2010 alle 6:41 PM

    Luca F: Il “ricco meritevole” compra un viaggio alle maldive, al suo viaggio contribuisce il “lavoratore medio frustrato” dell’areoporto con i suoi servizi. Quello che contesto è che dalla tua logica lui debbe essere perdente e accettare di buon grado di non poter fare almeno uno dei suoi viaggi. Il suo lavoro secondo me vale quanto quello del “ricco” anche perchè il suddetto si serve del suo lavoro. In un ambiente non gerarchico di solidarietà volontaria il suo lavoro verrebbe valutato allo stesso modo, risultato: nessuna persona sopra la media deve essere tassata o svantaggiata dalla possibilità dell’onesto lavoratore di farsi un viaggio alle maldive. 2. Non si sancisce un darwinismo sociale paranazista per cui chi per qualunque motivo ha più capacità di un altro che mette a disposizione della società debba valere di più di chi ha mansioni più ordinarie ma altrettanto rispettabili e necessarie. 3. Esiste anche l’invidia aristocratica, “ma come sarebbe? Quello è il mio vicino, un volgare trasportatore di scale e rampe all’aeroporto in vacanza nel mio stesso albergo? Non rende giustizia ad un genio creativo come me”.

  25. agosto 21, 2010 alle 7:59 PM

    @ Ingmar
    Quello che tu scrivi, la “frustrazione” è un modo non tanto velato di fare del marxismo vittimista, dato che lo sfruttamento non esiste (il lavoratore medio risparmia i soldi e con un low cost va pure lui alle Maldive).
    Una società basata sull’uguaglianza economica non esiste, e gli esperimenti atti a realizzare tale utopia si chiama comunismo o socialismo reale che ha dimostrato ampiamente il suo fallimento in particolare in merito all’uguaglianza di fondo tra individui proletari e classe di comando del baraccone.
    In un sistema basato sul libero scambio la produzione non è sfruttamento ma volontaria adesione ai contratti pattuiti tra individui responsabili e consenzienti.
    Un sistema non gerarchico non è neppure meritocratico e francamente non potrà mai funzionare dato che è privo di qualsiasi incentivo e gratifica.
    Di fatto la disumanità è quella dell’ingeneria sociale positivista socialista da cui il nazismo ha preso ampio spunto.
    Il libertarianismo e spenceriano ma non paranazista come tu chomskianamente affermi a vanvera.
    Esistono lavori e professionalità più o meno onerose e di reponsabilità, mi pare evidente ad esempio che un ingegnere non possa essere equiparato ad un muratore, dato che il know how dei due è nettamente differente.
    Con questo non vuol dire che anche il muratore non possa andare in vacanza risparmiando, certo il ciclo economico per lui è differente e potrà andarci meno frequentemente dell’ingegnere però questa non è penalizzante quanto semmai il riflesso evidente di una differenziazione professionale, individuale e del risparmio nelle priorità economiche e sociali delle scelte.
    Nulla impedisce al muratore di operare scelte marginali che pongano l’andare alle Maldive prima di altre.
    L’invida sociale o l’odio di classe e quello che tu marxianamente hai scritto, Max Weber parla di ceti e di meriti non di caste come il marxismo ha fatto intendere, dato che l’invidia aristocratica è parte proprio della visione socialista snob, progressista radical-chic non mi pare cosa del borghese anarcocapitalista.
    Saluti LucaF.

  26. Ingmar
    novembre 18, 2010 alle 4:58 PM

    @luca-relli Paura, eh? 🙂
    Scherzi a parte, dire che lo sfruttamento non esiste non ha niente da invidiare come astrattismo aprioristico, alla mia idea utopica, quindi cominciamo a guardare autocriticamente reciproche travi e travoni nei nostri ragionamenti.
    Non sono comunista e sinceramente questa cosa del comunismo come marchio di infamia da appiccicare a pera su chi pone il problema delle disuguaglianze sociali, mi ha stufato, (Non tu in particolarem dico in generale) io non ti ho dato del turbocapitalista.
    Che Domenico sia d’accordo con me sul fatto che tra capitalismo e libero mercato c’è una bella differenza lo dico solo a titolo informativo, non per dimostrare di avere ragione, cosa a cui non tengo, nel senso che tu sei sicuramente nella giusta logica, partendo dai tuoi presupposti.
    Io sono per il libero mercato, ma non per il capitalismo e non parlo assolutamente di una classe dirigente come nel fasciocialismo conservatore e autoritario, quello era puro capitalismo di stato, di conseguenza la tua “accusa” torna volentieri al mittente. Questa “ugualglianza economica”, che mi attribuisci di voler imporre (ammesso che tu intenda quello che intendevo io), non ha bisogno di nessuna imposizione perchè è basata sulla solidarietà comunitaria volontaria che parte dal riconoscimento della dignità di tutti i lavori.
    Tutti i lavori in cui qualcuno da ad altri della comunità qualcosa di cui questi hanno bisogno meritano il frutto di altri lavori, qualora chi li fa ne avesse bisogno e viceversa.
    “In un sistema basato sul libero scambio la produzione non è sfruttamento ma volontaria adesione ai contratti pattuiti tra individui responsabili e consenzienti.” Hai dimenticato un terzo padrone la necessità e il non avere niente in cambio a parte la propria forza lavoro. Come al solito ci si dimentica che l’economia è una scienza con un suo ambito ben preciso basato su gabbie concettuali ben precise e i liberisti si dimenticano sempre un terzo incomodo che impedisce a domanda e offerta di incontrarsi linearmente e insidia il teorema del miglior rapporto qualità prezzo, ovvero il tenore di vita medio e le differenze di potere d’acquisto che limitano questa possibilità di scelta ai prodotti a costo più basso, indipendentemente dalla qualità.
    Dissi anche che se manca l’accesso alla proprietà necessaria al proprio lavoro autonomo, si arriva alla dittatura dei grandi possidenti, anzi proprietari, Proudhon elenca un insieme di casi in cui la proprietà è nemica del possesso, ovvero proprietà dei frutti del proprio lavoro e di ciò che si usa.
    “Un sistema non gerarchico non è neppure meritocratico e francamente non potrà mai funzionare dato che è privo di qualsiasi incentivo e gratifica.
    Di fatto la disumanità è quella dell’ingeneria sociale positivista socialista da cui il nazismo ha preso ampio spunto.”
    No, questo non me lo aspetto da un libertario, un libertario non si oppone al solo stato perchè esso non è l’unica forma di gerarchia, ma ti do di nuovo ragionehai ragione, infatti il capitalismo senza stato e senza gerarchia non potrebbe sopravvivere. L’eventuale sconfitta dello stato non basterebbe se la gerarchia e l’autorità sopravvivono come concetti e convenzioni utili alla società. Non è vera la tua implicazione per cui mancherebbe la meritocrazia in sua assenza, anzi. La gente infatti può sempre scegliere tra un prodotto che preferisce ad un altro, ma gli unici prodotti e produttori che meritano di essere boicottati o puniti sono i prodotti scadenti inutili o dannosi ma se ad esempio un una pasta è preferita dal 10% della comunità e un altra dal 3% il tuo sistema discrimina quel 3% in base a dei gusti alimentari, con buona pace del pluralismo. Il mio principio è che il 10% non discrimini il 3% se questo non ha danneggiato in nessun modo il suddetto 10. Tutto il contrario del nazismo.
    Quando parli di gratifica tu parti dal presupposto che certi lavori devono necessariamente essere un ripiego un lavoro da umile che qualcuno deve pur fare ma che altri mai farebbero, in sostanza dividi tra lavori per falliti e lavori per gente di successo, e qui non sono per niente d’accordo, è il solito pensiero occidentale ipercompetitivo che vede vincenti e perdenti, e afferma che senza questa gerarchia non c’è incentivo. No, non necessariamente uno vuole migliorare il mondo per prevalere sugli altri o affermarsi a scapito degli altri per lo meno non io, non è necessariamente che chi porta ingegno, musica arte alla società vuole avere più del contadino o deve far sentire questo un fallito. Può essere che alcuni tra i contadino e gli operai (meglio se in cooperativa aggiungerei ;)) facciano questo lavoro perchè non gli riusciva di imparare a farne un altro, ma la loro eventuale delusione non è sufficiente come “punizione”? Devono anche scontare un minore potere d’acquisto? Ciò dimostra che la loro delusione può essere indipendente dalla prospettiva di guadagnare di più con il lavoro che avrebbero preferito fare. Questo significa che era il fare quel lavoro lo stimolo a migliorarsi non quanto di potevano comprare facendo quel lavoro. Non sono contrario ai soldi come mezzo volontario di scambio, solo bisogna ammettere che non è l’unico, il punto è che i lavori sono di natura tanto diversa tra loro, ancora più incontrollabilmente diversa + la natura della loro fruizione che i soldi non possono essere l’unica unità di misura del loro valore, è quasi un offesa alla molteplicità dei loro aspetti. Soldi, ma soprattutto baratto, sono a mio parere più invece più efficaci per gil scambi tra zone geografiche distanti. Attenzione io parlo quindi di altruismo reciproco *volontario* tra membri della comunità.
    “Esistono lavori e professionalità più o meno onerose e di reponsabilità, mi pare evidente ad esempio che un ingegnere non possa essere equiparato ad un muratore, dato che il know how dei due è nettamente differente.” Ma guarda cas abbiamo bisogno anche del muratore (pure se spero nella meccanizzazione) e per questo motivo non ddovremmo fare gerarchia) .Non approvo questo metro di giudizio quasi voglia sancire ufficialmente che il muratore è un fallito che fa un lavoro che nessuno vorrebbe fare, prima di tutto perchè non è vero e molti lo fanno per scelta, poi questo sancisce una classe. Il know how dell’ingegnere è diverso, vero, ma è nella natura delle cose da questo non deve seguire che il muratore merita di meno, la tua obiezione è: che incentivo ha l’ingegnere a sbattersi con gli studi se da questo non ha alcun vantaggio rispetto a chi non ne fa o chi, vabbè “fallisce”. Io rispondo, che può semplicemente trovare più gratificante fare l’ingegnere per conto suo, magari semplicemnte preferisce lavorare di testa che di mano, Senza che però da questo debba procedere che chi lavora di mano sia anche un pezzente. E’ questo giudizio di valore insito nel capitalismo che crea la lotta di classe, il lavoro manuale viene così reso “umile” perchè sinonimo di fallimento che si riflette nel potere d’acquisto.
    Io dico che i lavori si completino a vicenda.
    “L’invida sociale o l’odio di classe e quello che tu marxianamente hai scritto, Max Weber parla di ceti e di meriti non di caste come il marxismo ha fatto intendere, dato che l’invidia aristocratica è parte proprio della visione socialista snob, progressista radical-chic non mi pare cosa del borghese anarcocapitalista.
    Saluti LucaF.”
    L’invidia aristocratica esiste e io non sono snob. Semmai lo snobismo è una reazione all’esibizione di ricchezza che spesso altro valore non ha che quello di essere esibita, Briatore docet. Il resto l’ho detto precedentemente. A presto, mio caro.

  1. Maggio 10, 2010 alle 11:19 am

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